“CoroNation” di Ai WeiWei
Presentato al Festival del film e forum internazionale sui diritti umani di Ginevra il film del regista cinese. Giovanna Sellaroli analizza firma e grafia.
Giovanna Sellaroli
Si è concluso ieri il Festival del film e forum internazionale sui diritti umani (FIFDH) di Ginevra, dopo dieci giorni di programmazione online. Il Festival, giunto alla 19esima edizione, quest’anno ha dovuto reinventarsi a causa della pandemia, proponendo film on-demand
“Ovviamente nulla può sostituire le sale cinematografiche, ma abbiamo cercato comunque di coinvolgere il pubblico. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo pensato a un premio assegnato dal pubblico” ha detto la direttrice Isabelle Gattiker.
La giuria ha attribuito il riconoscimento principale (10’000 franchi) al documentario olandese “Shadow Game”, delle registe Eefje Blankevoort e Els van Driel. La pellicola utilizza video e contenuti dei social network prodotti da adolescenti migranti sulle rotte verso l’Europa.
Tra i 29 film in concorso, in quest’ultimo fine settimana del Festival è stato proiettato il film documentario “CoroNation” di Ai Weiwei, artista, regista e attivista cinese, dissidente esiliato in Portogallo, famoso e controverso, giudicato persona non gradita nel suo Paese. Cinquecento ore di girato condensate in centoquindici minuti di immagini inedite, interamente realizzate e inviate da amici e conoscenti di Ai Weiwei bloccati a Wuhan, e dirette dal regista da remoto, dall’Europa.
Basato su riprese di droni, riprese delle telecamere di sicurezza degli ospedali e video amatoriali del personale medico impegnato drammaticamente, con pazienti infetti, il lungometraggio registra la “risposta militarizzata e brutalmente efficiente che il Partito Comunista Cinese ha messo in campo per controllare il virus”.
Weiwei ha inteso documentare la pandemia di coronavirus vissuta dagli abitanti di Wuhan, la città della paura, dove tutto ha avuto inizio, raccontando la disperazione infinita e silenziosa dei medici al lavoro e dei pazienti in attesa, dei tanti che dovevano scegliere se dare priorità alla madre o alla figlia, al nipote o al nonno, alla moglie o al marito.
Wuhan, la città dove la popolazione in preda al panico, incerta su come comportarsi dinanzi a quell’epidemia che nel giro di poche settimane avrebbe investito il mondo intero, veniva repressa dalle autorità, e dove il Governo imponeva pesantemente la censura a chiunque cercasse di denunciare, o solo raccontare, quanto stava accadendo in città.
In Cina, durante la prima ondata di Covid-19, il Governo ha preso il controllo totale della situazione e dell’informazione;
il colpevole silenzio del regime cinese sin dall’inizio dell’epidemia a Wuhan, l’ordine di tacere sull’esistenza del virus, nel nome della “stabilità sociale”, ha inevitabilmente contribuito a sollevare l’indignazione dell’artista dissidente Weiwei, che ha deciso di mostrare al mondo intero, ancora oggi ostaggio della pandemia, il castello di bugie poste in atto dal regime.
Un regime che ha cercato di occultare l’epidemia fino alla fine di gennaio 2020, fin quando si vide costretto a chiudere i cittadini in casa e a sbarrare le porte della città, dando inizio al primo dei numerosi lockdown.
Dalla paura alla libertà negata, Ai Weiwei documenta lo stato d’animo della gente, racconta la pandemia dall’interno, in maniera diretta, senza edulcorare la realtà, seguendo gli sviluppi sanitari e politici del virus a Wuhan dal primo giorno, alle persone barricate in casa, agli ospedali tirati su in un batti baleno, al rigidissimo controllo statale e militare, sino alla diffusione mondiale del contagio.
Il lungometraggio introduce interviste ai pazienti e alle loro famiglie, mostra la gestione della crisi e il controllo sociale del governo, che Ai Weiwei ha definito “un misto di sorveglianza, lavaggio del cervello e brutale controllo su ogni aspetto della società”. Il risultato è il quadro una collettività che manca di fiducia, di trasparenza e di rispetto per l’umanità, messo in luce dal film.
A inizio anno, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha inviato una missione di esperti a Wuhan per tentare di capire dove abbia avuto origine il coronavirus che alla fine del 2019 ha innescato questa terribile pandemia che ha provocato tante vittime più di una guerra, e che ancora tiene sotto scacco il mondo.
Uno dei componenti della squadra, il microbiologo Dominic Dwyer, ha denunciato che a fronte della domanda di ottenere i dati grezzi sui pazienti dei primi casi, agli esperti sarebbe stato fornito solo un parziale report dai cinesi.
Lo stesso capo della missione, Peter Ben Embarek, ha espresso la sua frustrazione per la mancanza di accesso ad alcuni dati chiave, sottolineando la necessità di avere le informazioni richieste, così come vuole la pratica standard.
Anche secondo il Wall Street Journal, la Cina si sarebbe rifiutata di fornire al team dell’Oms alcuni dati che avrebbero potuto essere utili per chiarire l’origine del virus.
In una recente intervista rilasciata a swissinfo.ch, Wi Weiwei alla domanda se pensa che un giorno sapremo davvero cosa è successo un anno fa con la pandemia, ha risposto: “No, non lo credo. Il regime comunista è molto potente e forte e mantenere questo segreto è in cima alla loro agenda. L’OMS ha fatto una visita molto superficiale. Anche loro (l’OMS) sono responsabili, poiché all’inizio della crisi hanno indicato che la malattia non era trasmissibile tra gli esseri umani. Questo è assurdo. Siamo di fronte a un mostro molto più grande”
Definito crudo e drammatico, “CoroNation” non è stato accolto al Festival del cinema di Venezia, né ad altri Festival internazionali, così la Biennale di Venezia, Netflix e Amazon Prime hanno rifiutato il documentario, disponibile oggi solo su Vimeo. Insomma, tutte le piattaforme globali non hanno trasmesso o accolto il film.
“Ironicamente, la prima lezione che ho ricevuto non è stata dalla Cina, ma dall’Occidente. Tutti i maggiori festival cinematografici del mondo dove abbiamo cercato di presentare il film, Toronto, New York e i maggiori distributori online come Netflix e Amazon, all’inizio hanno tutti amato il film. Ma alla fine, la risposta che abbiamo ricevuto è sempre stata la stessa: non possiamo accettare il vostro film… … Il mercato cinematografico è ormai cinese. Proprio il mese scorso la Cina ha superato gli Stati Uniti e ora è il più grande mercato cinematografico del mondo. Per quanto riguarda i festival, o sono sotto autocensura o sotto la pressione della Cina” ha dichiarato il regista a swissinfo.ch
Nato a Pechino nel 1957 in una famiglia di intellettuali, il padre, poeta, viene accusato di “idee destriste” dal Partito Comunista Cinese, così lui e la famiglia vengono inviati in un campo di rieducazione militare.
Per anni la famiglia sarà costretta a vivere nel deserto dei Gobi e al padre, Ai Quing, verrà affidato il compito di pulire le latrine del paese. Solo nel 1976 potranno tornare nella capitale.
Nel 1981 Wi Weiwei decide di lasciare la Cina per vivere a New York. Sono anni intensi in cui l’artista farà molti lavori per mantenersi e a New York che si interessa all’arte concettuale di Marcel Duchamp e della Pop Art di Andy Warhol.
Nel 1993 torna in Cina a causa della malattia del padre, pubblica dei libri sull’arte e, nelle sue opere esprime fermamente le critiche al capitalismo. Nel 2005 apre il suo blog in cui commenta la politica cinese, esternando le sue critiche al governo. In occasione del grave terremoto del 2008, denuncia i crolli delle scuole costruite senza il rispetto delle norme di sicurezza, il suo blog viene oscurato.
Per la sua opposizione al regime, nel 2011 viene arrestato e portato in una località segreta per 81 giorni e rilasciato dietro cauzione. Condannato per evasione fiscale, lascia la Cina nel 2015.
Attivista politico, si è espresso nelle forme più diverse, tra arti visive, installazioni, architettura, pubblicazioni, film e comunicazione. Instancabile la sua attività di condivisione di denunce sociali (spesso rivolte contro il governo cinese) e riflessioni sul valore dell’espressione artistica; investe molti sforzi nel valorizzare il potenziale di internet come “strumento per la democrazia”.
Una firma che esprime nella sua linearità la fierezza del nome portato. Il desiderio di distinguersi si estrinseca nella ricerca di presentarsi in maniera originale e volitiva.
Reattivo, combattivo e determinato, lo scrivente è ostinato nel portare avanti le sue scelte e si mostra sicuro nelle sue decisioni. Sostiene le sue ragioni con pervicacia, è abile nell’argomentare e investe la sua notevole energia in attività febbrili e sempre costruttive.
Energia nel procedere, forza nelle azioni da compiere, caparbietà e risolutezza, ne caratterizzano la personalità e, in maniera speculare, le sue creazioni artistiche.
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