Grotte, Trappeti e Frise, una eredità rurale, ma anche marinara

Sembrerà strano ma l’esistenza della Frisa e concatenata al lavoro dei frantoi, i frantoi alle grotte o ipogei sotterranei…..ed anche al mare…perchè…….buona lettura.

Maria Catalano Fiore

Perché tanto legate queste cose così diverse? Se riflettete, qui in Puglia sono concatenate.

Le Frise o Friselle, come vogliamo chiamarle, qualcosa di povero ma buono presente da sempre nella millenaria tradizione culinaria, o meglio dalla Magna Grecia in poi, sono distribuite e conosciute ovunque, o quasi, in Italia e all’estero.

In questo “tacco” della nostra penisola sono passati Micenei, Greci, Corinti, Illiri e poi Romani e poi Longobardi, Bizantini, Saraceni, Normanni, Svevi. Nella Grecia Salentina si parla ancora il Griko. Cugini di lingua li troviamo nella Bovesia, ossia l’Aspromonte Reggino, dove si parla il Grecanico in un’area ristretta di cinque comuni.

Con queste premesse si può immaginare quante prelibatezze e varianti e contaminazioni abbia assunto una qualsiasi ricetta culinaria, dalla più semplice alla più ricca. Il territorio pugliese, inoltre, oltre ad essere “il granaio d’Italia”, non scherza neanche come produzione olearia (a parte i recenti problemi di Xilella), esportata, ma non solo. Sino al XVIII secolo da questi territori e da quelli Calabresi, partivano navi cariche di olio per illuminare le principali capitali europee, i residui grassi venivano inviati, poi a Marsiglia nei rinomati laboratori che producevano l’ottimo sapone. Una lavorazione cominciata nella Siriana Aleppo e migrata sino in Francia. Una storia nella storia.

Un Trappeto Salentino.

Il territorio Salentino, ricco di grotte ed anfratti si prestava a ricavare degli ipogei sotterranei per la conservazione di granaglie o anche frantoi, i “Trappeti” dal termine greco o latino Trapetum, Torchio per le olive, ormai parte integrante del territorio e dell’architettura rurale pugliese. Alcuni risalenti all’epoca Messapica, o Cripte che, dopo l’era Bizantina, vengono trasformate. Testimonianza certa è che dopo la dominazione Bizantina gli ipogei aumentarono visibilmente e di pari passo anche frantoi e luoghi di culto.

Bellissimo e ampio Trappeto salentino

Questi “trappeti” conservavano una temperatura costante ideale sia per la conservazione che per la lavorazione poi di prodotti. Un mondo a parte, riservato e protetto anche da incursioni nemiche. Autosufficienti, azionati da pazienti ciuchi. Anche i “trappitari” erano protetti, è vero che, a volte si allontanavano dalle famiglie, ma avevano un lavoro certo più un pasto al giorno, fatto arrivare dal fattore tramite caldaie piene di verdure di stagione, fagioli, pezzetti di carni bollite nelle verdure, da condire con olio fresco di spremitura, e ovviamente pane. A fine stagione, più o meno a fine inverno, si tornava a casa con un salario ed alcune fiasche di olio buone per tutta la famiglia.

Uomini e muli in un trappeto in una foto di fine 800

Ancora in epoca post Unità d’Italia, a seguito del censimento, solo in terra Salentina si contavano oltre 1.073 trappeti, attualmente, come da verifica del 2006, in tutta la Puglia sono presenti circa 157, restaurati e recuperati (4 nel barese, 7 nel brindisino, 22 trappeti nel tarantino e solo 124 nel leccese). Capitale trappetesca la cittadina di Sternatia, dove erano attivi ben 19 frantoi, tutti collegati tra loro da camminamenti sotterranei. In questi luoghi gli uomini restavano vario tempo nelle rocce.

Man mano questi Trappeti emergono, semi-ipogei, poi costruzioni in tufo.

Carmiano (Le) trappeto semi-ipogeo

In questo andamento rurale un posto di notevole importanza assumono le “Frise”, sorta di ciambelle lavorate con farina di grano ed orzo, inumidite all’occorrenza e condite con olio e aromi ( va ricordato che il pomodoro arriva in Europa solo dopo la scoperta dell’America).

La leggenda vuole che le “Frise” siano arrivate con l’eroe troiano Enea, sbarcato sulla costa salentina durante la sua fuga. In realtà era un prodotto probabilmente già esistente, a lunga conservazione, da poter riutilizzare nel tempo. Più certa una derivazione marinara, questo pane “ricotto”, doppiamente cotto, non produceva muffa e al bisogno, bagnato con acqua di mare e con un goccio d’olio era un buon rimedio alla fame. Le leggende su eroi greci e troiani in fuga in sosta nel Salento o stabiliti li, sono tante, comunque l’uso di questo pane duro ma a lunga conservazione, è ampiamente testimoniato.

Frise salentine

Dopo alterne vicende la “Frisa” torna prepotentemente in auge a fine 800 quando le terre lavorabili e gli uliveti, spesso lontane dai centri abitati, vengono date in uso a piccoli affittuari. A volte non vi era la possibilità di preparare il pane fresco, ed ecco che le “Frise” tornano utili, conservate in grotta in grandi giare di creta “le Capase”.

Friselle “Italiane” pomodorini, mozzarella ed olive.

E secolo dopo secolo arrivano sino a noi, buone e fragranti, cotte e poi “ricotte” al forno, integrali, di orzo o di grano.

Inumidite, condite in mille modi, sono un gran bel pasto “Street Food”, ottime come merenda, aperitivo, contorno o semplicemente “Frise”.

Ormai amate incondizionatamente anche dai turisti.

Semplicissime da preparare: Frisa di vostro gradimento, io amo quelle di farina d’orzo, scure e compatte, un filo d’olio, pomodorini , cipolla fresca di Tropea, un velo di origano……pronta da leccarsi i baffi!

DUE Letture esaustive: Antonio Monte “I Frantoi ipogei del Salento” ed. Grifo 1995 e Lucia Milizia Fasano “Il Trappeto sotterraneo in terra d’Otranto” ed. Capone 1991.

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