Eugenio Scalfari un mito del giornalismo
Vola via a 98 anni il fondatore del giornale La Repubblica
Lidia Petrescu
“Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano d’un palazzo costruito nei primi anni dell’Ottocento nella piazza centrale della città”. E’ l’inizio del racconto dell’uomo più completo, più complesso ma anche più difficile da capire. Economista, inventore di giornali, imprenditore, politico, filosofo, romanziere, poeta. In ultimo anche amico del Papa gesuita, lui cresciuto tra le pagine di Diderot e Voltaire, un agnostico.
Figlio unico di genitori sì affettuosi ma lontani, la mamma romantica e mite, il padre un meridionale pugnace che aveva aderito all’appello di D’Annunzio a Fiume. “Fu l’amore per me a tenerli uniti finché vissero. E io feci tutto ciò che potevo per evitare la separazione che avrei vissuto come una catastrofe“. Una triangolazione d’affetti decisiva per la sua formazione sentimentale e professionale, della quale avrebbe preso coscienza molto più tardi. “La componente paternale è stata la dominante d’ogni mio tipo di sentimento e di amore per gli altri. L’appartenenza a un progetto comune, la protezione, la felicità che tutto questo poteva procurare, il senso di partecipare a qualcosa che superava i singoli individui, me compreso, ma che aveva in me un motore di avviamento, privo di rivalità e di gelosia”
Gli incontri della sua l’adolescenza come quello con Italo Calvino, il compagno di banco insieme al quale costruisce una grammatica del pensiero e delle emozioni con quale in pubblico ne parlava con l’ammirazione che si deve al grande scrittore, nel privato emergeva la complicità maschile di due amici che scoprivano insieme la vita e la sessualità anche negli aspetti più ruvidi. A dividerli furono le diverse scelte verso il regime. Trasferito a Roma nel 1941, Scalfari aveva attraversato il fascismo come molti della sua generazione, nella divisa grigioverde da balilla moschettiere immerso nel mito della romanità. Quando nel 1943 viene cacciato dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista sulla corruzione dei gerarchi, non la prende bene. Ma fu quell’episodio a segnare l’inizio della maturazione antifascista che l’avrebbe portato su sponde ideali molto lontane. Della sua adesione a Mussolini parlava senza reticenze, forse più insistentemente in anni recenti, nel tentativo mai finito di storicizzare un’esperienza che in fondo lo turbava.
Dopoguerra comincia l’epopea illuminista del Mondo, con le stelle polari di Benedetto Croce, Luigi Einaudi e Salvemini, tra liberalismo e socialismo democratico.
A Milano frequenta il caffè Cova con il meglio dell’establishment economico e finanziario del dopoguerra. Dal 1949 collabora al Mondo, sotto la guida di Ernesto Rossi. E sull’Europeo tiene una rubrica di economia. È là che inventa il giornalismo economico, genere che non esisteva o meglio era appannaggio di severi cultori della materia. In vero il merito è di Arrigo Benedetti che per tre volte gli cestinò l’articolo: “Ma come scrivi, non ho capito niente!“. Doveva raccontare l’economia con le sue regole e i suoi personaggi, le forze che muovevano il mercato e gli interessi, senza tanti tecnicismi e ragionamenti oscuri. Ed è cosi che nacque lo stile di Eugenio Scalfari.
Anni fondamentali a Milano dove conosce Simonetta de Benedetti, figlia di Giulio, leggendario direttore della Stampa. Si sposano a Londra nel 1954 e cinque anni più tardi rinnovano le nozze a Roma: un sodalizio affettivo che non si sarebbe mai spezzato fino alla morte di Simonetta, riuscendo ad accogliere anche il grande amore di Scalfari per l’attuale moglie Serena Rossetti, conosciuta a Roma nel 1966. Ad entrambe dedica un libro sul Sessantotto, L’autunno della Repubblica: “Questo libro è dedicato a due persone. Una m’ha insegnato a non farmi corrompere dal potere, l’altra a non disperare della rivoluzione“.
Quel triangolo sentimentale che aveva conosciuto da bambino, ritorna nella sua vita come giusta fonte di felicità e di infelicità per le sue compagne e per le figlie Enrica e Donata. Un’esistenza non quieta ma sicuramente piena che gli farà dire nelle sue pagine conclusive: “Ho avuto una vita non serena, ma fortunata e felice. Molte ansie e molti complessi di colpa, molta fiducia in me stesso, molto amore verso gli altri unito a un’intensa competitività. Ho dato molto amore e moltissimo ne ho ricevuto“.
Compare Carlo Caracciolo, un sodalizio, nutrito da complicità maschili e coincidenze ideali, senza il quale non sarebbe nato l’Espresso. E non sarebbe nata Repubblica. Nell’ottobre del 1955 è il varo del settimanale di via Po, la nave dei liberal italiani. L’idea iniziale era stata quella di un quotidiano nazionalpopolare libero da interessi se non quelli generali del paese. Uno dei pochi imprenditori di cui Scalfari, Benedetti e Caracciolo si fidano è Adriano Olivetti, perché attento ai bisogni collettivi e alla vita della società.
A chi gli domandava quanto avesse contribuito a cambiare il Paese, Scalfari rispondeva: “Io non volevo cambiare l’Italia ma il giornalismo sì. E questa mi pare un’impresa riuscita”.
In verità ne beneficiarono anche quegli italiani che si riconoscevano nei suoi valori di democrazia, innovazione, giustizia sociale, legalità e diritti. Epiche furono inchieste che smascherarono poteri occulti e il progetto golpista del generale De Lorenzo. E appartengono alla storia del giornalismo le battaglie contro un’imprenditoria intrecciata alla politica corrotta e al malaffare. “I giornali da me guidati puntavano su una borghesia illuminata e riformista che da noi era inconsistente. Perciò ci opponemmo sempre alla razza padrona che rappresentava una deformazione del capitalismo e della democrazia”.
Nel luglio del 1975, “in una notte di temporale estivo cui seguirono le stelle”, Scalfari firma nella villa di Giorgio Mondadori l’atto costitutivo della nuova società editrice. Repubblica è varata il 14 gennaio del 1976. Etica pubblica, innovazione, modernizzazione del paese: le coordinate politiche e culturali restano le stesse, adattate a tempi che vorticosamente cambiano.
Con più di ottocentomila copie – e in qualche occasione anche il milione – il quotidiano riuscì nel l’impressa di rendere maggioritaria una cultura politica riformista nata minoritaria. Non si trattava solo di un successo editoriale, disse Scalfari nell’emozionata cerimonia di addio alla redazione. Ma di una conquista civile che andava molto oltre i profitti.
L’odissea finisce nel 1996, a 72 anni, in un’Italia in cui nessuno si dimette e per questo forse un paese stagnante, Scalfari lascia la direzione di Repubblica. “Meglio andarsene prima di essere cacciato“, è il principio confessato solo a pochi intimi. Inizia un’altra vita, il lungo viaggio dentro di sé che ci avrebbe fatto capire molte cose: sul suo mondo interiore e anche su di noi, la sua famiglia professionale. È la stagione dei saggi filosofici e dei romanzi, dell’incontro con io, della testimonianza diaristica. Narciso, predatore, allegrissimo anche nel declino. “Io non scrivo, creo“, diceva del suo vezzo di dettare a braccio l’articolo. Fino all’ultimo Scalfari ha lavorato, pensato, fatto progetti e battaglie, trasformando la fine in un nuovo inizio, la nostalgia in speranza di futuro.
Addio al giornalista per eccellenza, un baluardo della sinistra progressista, un futurista senza limiti che lascia una testimonianza pesante, forte, cosciente della sua capacità.
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