Lucania terra di sapori
Lampascioni con le cotiche, una pietanza povera della cucina rurale lucana, ma estremamente buona e nutriente come tutte le mille cose buone della tradizione lucana.
Maria Catalano Fiore
Un fazzoletto d’Italia, bagnato appena da due mari, Tirreno e Jonio, culla di sapori atavici unici al mondo. questa è la Lucania o se preferite Basilicata.
Centotrentuno comuni arroccati su monti e calanchi o in avvallamenti, campi coltivati o incolti per volontà di un governo, all’epoca incosciente, vigneti prosperosi che resistono al duro freddo invernale, vini neri come inchiostro che lasciano l’alone nel bicchiere, peperoni rossi dolci e “cruschi” che ti scrocchiano in bocca, formaggi e provoloni dal sapore deciso, trecce fresche o stagionate di latticini, agli, cipolle e “diavolicchi” che ti avvampano, salsicce “a catena” e pane che dura fresco per una settimana perché lievitato e lavorato ad arte in “scanat” (panelle) da 4 kg, coltelli affilati e mani sapienti che tagliano fette “ra part a part” (da un angolo all’altro), per poi passarle ai commensali che “si fann tonn tonn” (si arrotondano) tra sughi, salami e formaggi, questa si chiama Lucania.
Lucania storica o Basilicata, se volete, ma dove non è necessario andare in ristoranti particolari, in ogni suo punto ristoro o casa privata questi sono i sapori che passano generazione dopo generazione.
Si conoscono le erbe, commestibili o medicinali, dove trovare i funghi o li “cividdin” (lampascioni o come volete) preparati in tanti modi o le ottime lumache annegate nel loro sugo “alla zingaresca”.
Oggi sono tornate di moda le “cialde” di pane, ma i lucani non hanno mai sprecato il pane, cotto o condito, mollica rafferma per farcire o fritta in sostituzione del formaggio.
I famosi “pomodori eterni” tondi odorosi, quelli da appendere ad uno spago in corone che abbellivano i muri di calce alternandosi all’oro rosso della Basilicata i “peperoni cruschi” di Senise e agli immancabili “diavolicchi”.
I cibi di un tempo erano legati alle stagioni, i mesi e la tavola andavano sempre a braccetto e a braccetto andavano le zuppe calde accoppiate alle salsicce o alle uova fritte con cruschi o baccalà. Un fritto rapidissimo quello dei cruschi che costringeva i peperoni a diventare appetibili e poi farsi sorprendere da uova o baccala lesso, o a coprire una bella spasa di strascinati o manatedd (pasta in casa).
I fantastici legumi che non si trovano più in altri luoghi come le “cicerchie” accoppiate in zuppe con altri legumi, le famose “capriate” materane (cibo per capre) dal sapore unico, piatto povero, ma ricco di sapori diversi che si scioglievano in bocca.
Cibi poveri preparati da donne “spigolatrici” che spigolando raccoglievano grano, erbe e legumi per farne zuppe favolose di sera o, essiccati in pieno inverno, quando la neve impediva anche di “andare a giornata”, piatti di alta professionalità poiché si dovevano conoscere i tempi di cottura prima di mescolare i vari ingredienti a disposizione e gli aromi da aggiungere, come l’alloro che profumava ed era altamente digestivo. Piatti persino dalla cottura economica poiché cuocevano lentamente in “pignate” vicino al camino, e una pignata con qualsiasi cosa non mancava mai….
Le Feste Comandate o i Matrimoni erano poi eventi “da tavola”.
Già in tempi atavici ad ogni matrimonio corrispondeva un lauto pranzo benaugurante, non serviva una sala ricevimenti, ma il pranzo doveva essere abbondante perché doveva garantire ai novelli sposi benessere e futura prosperità. In estate si allestivano tavolate esterne in aie o piazzali, in inverno anche depositi andavano bene, o case nobiliari con saloni ormai semivuoti dove parenti ed amici trasportavano tavoli e sedie. Un camino era indispensabile come pietre per sistemare i carboni per gli arrosti e caldaie per cuocere pasta e sughi in varie cucine e fornelli.
Usi antichi, ma in essere sino agli anni 70, a volte anche 80 dello scorso secolo, quindi ancora impressi nella memoria collettiva.
Le donne preparavano vari tipi di pasta, tagliatelle, ravioli, troccoli ecc… agli uomini/ cuochi di cantine o trattorie il compito di preparare sughi ed intingoli, garzoni per gli arrosti e ragazze da marito sfoderavano le loro virtù nel preparare preventivamente i dolci che venivano conservati su lenzuola bianchissime poggiati sui letti della casa. Tutto in un immancabile trambusto. La famiglia della sposa innanzi tutto ammazzava un maiale, poi lo sposo e i parenti contribuivano con prodotti vari, più vasta la famiglia, più lauto il pranzo.
Dalle mie parti erano considerati cuochi rinomati un fratello di mia nonna materna, Zì Ciccill (zio Francesco), oste di professione, ed un fratello di mio nonno paterno, Zì Saverio, un sarto da uomo che metteva la stessa maestria nel confezionare splendidi abiti da cerimonia (l’abito buono che doveva durare una vita), quanto delicatezza nei sughi e nei pezzetti da aggiungere o nelle polpettine varie, o nel farcire polletti ruspanti e conigli, tutti da annegare in quel suo pentolone di ragù. I due erano, ovviamente amici inseparabili, si comprendevano al volo e non volevano “li femn p’nand a li pir'” (le donne tra i piedi) quando dovevano cucinare le loro prelibatezze.
Zio Saverio, che ha conosciuto bene anche mia figlia (a cui, come me, regalava scampoli di stoffe varie “Portalo a zia Melina che ti cuce una gonnellina!”) ormai avanti con l’età e dopo aver perso il suo complice in cucina, ricordo benissimo, che ha voluto affrontare il pranzo di matrimonio del suo primo nipote, preparando per giorni in cucina, allestendo la tavolata nella sua sartoria, ormai non più usata, tutto secondo tradizione, è stato il suo ritiro definitivo anche dalla cucina.
Una ultima occasione per dimostrare la sua grande dote culinaria e abilità nel preparare un pranzo luculliano, con portate che non finivano mai, durato moltissimo e ovviamente innaffiato da buon vino lucano: l’Aglianico del Vulture.
In paese c’era anche un pasticciere che ricordo con tanta nostalgia, Pasquale, solitamente lavorava per il suo Bar, in piazza, ma se prenotato per feste, battesimi, torte per matrimoni ecc…. sfoderava il meglio di sé in dolci vari tra cui “Sciù” leggerissimi e farciti da delicatissima crema tutta uova e limone che al solo ricordo viene l’acquolina….Entrava in casa della gente portandosi addosso l’odore dello zucchero caramellato o cannella e crema, un odore buono, di persona dolce, quale era.
Su tutto questo ovviamente scorrevano vini e dopo un po’ anche i canti e si tiravano fuori fisarmoniche, organetti e chitarre ed oltre a canzoni varie, note e ballabili, c’erano anche i menestrelli da sbornia…..
“Se il mare fosse vino, ci passerei sera e mattina, ma siccome è fatto d’acqua appena lo vedo fuggo e scappo” o ancora “ Allora la mia pancia è contenta quando c’è molto vino e poca gente” o ancora ” Cuss vin è bell e lisc com’ù bev accuscj u piscij”….
Una ricetta? Sono mille e più, tutto dipendeva anche dalla fantasia della cuoca e di quello che aveva a disposizione…. I peperoni Cruschi non potevano mancare mai…
La ricetta tipica lucana, semplicemente favolosa:
PEPERONI CRUSCHI, PATATE E BACCALA’
Ingredienti per 4 persone: 300 g. di baccalà secco, quattro peperoni cruschi, tre patate grandi o quattro più piccole, olio d’oliva, poco sale, una padella.
Preparazione: innanzitutto mettete a bagno il baccalà almeno dal giorno prima, poi lessatelo appena e mettetelo da parte a sgocciolare. Lessate le patate, spellatele e fatele a tocchetti e mettetele da parte.
Sbriciolate i peperoni secchi, poi in una bella padella, possibilmente di ferro, mettete un filo d’olio abbondante e fatelo riscaldare al massimo, buttate i peperoni velocemente, in modo da farli diventare croccanti ma non bruciati, toglieteli un attimo, nella stessa padella, con lo stesso olio che sarà diventato rosso mettete prima le patate e ripassatele per fare un po’ di crosticina, poi il baccalà, girate bene il tutto senza sfaldarlo e quindi impiattate in un bel piatto da portata e condite con i peperoni e con tutto l’olio rosso della padella. Buon appetito a tutti!
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