La leggenda della F’kaz a’ livre (La focaccia a libro)
La focaccia a libro una tradizione corsa, trapiantata nella Puglia: Come in tanti altri comuni pugliesi, piccoli e grandi, il pane ha un labile confine tra il sacro ed il profano,
Rocco Michele Renna
Una antica storia racconta di sette corsi che alla fine del 1700 transitarono per Sammichele di Bari: Giovanni Boccheciampe di Oletta, Giovanni Battista De Cesari di Casalabrida, Raimondo Casimiro Corbara di Bastia, Lorenzo Durazzi, Stefano Pittaluga, Antonio Guidone e Ugo Colonna di Sollacarò.
Restarono alcuni giorni in Barletta, con l’ idea di approfittare di un imbarco per la Sicilia, ma non essendoci riusciti, partirono per Taranto, convinti di poter trovare là qualche vascello inglese, o almeno con più facilità qualche altra occasione per portarsi in Sicilia.
Il protagonista della vicenda è Giovanni Boccheciampe, tralascerò l’intera storia del 1799 e ci concentreremo sulla parte più interessante…
Gli altri sei corsi, scambiati per spie francesi, vennero catturati e portati all’identificazione. Giovanni, invece, rimase a Sammichele di Bari, come ospite del sindaco, che gli indicò dove alloggiare, nel frattempo che fossero tornati i suoi compagni…
Dopo aver salutato il delegato del sindaco uscì dall’atrio e quando raggiunse la porta dell’alloggio, era una porta verde, si fermò prima di aprirla … lì si respirava odore di buon pane.
Quella fragranza invitante e inebriante, catapultò la mente di Giovanni nel mondo dei ricordi … il ricordo della madre; il ricordo della “fougasse à livre” che lui, ragazzino, portava al forno con attenzione; il ricordo di quando andava a riprenderla e tornava a casa con tanta acquolina in bocca. Tutti quei ricordi, in quel momento, non gli consentirono di aprire la porta; lo fecero andare oltre, verso la porta successiva da dove proveniva quel profumo di pane.
Bussò ed entrò nel locale del forno. La prima persona che vide fu un uomo robusto e calvo che stava vicino al forno con una pala fra le mani: “Lei è il padrone di questo forno”?
“Sì, sono io il padrone – guardò Giovanni dalla testa ai piedi con i suoi occhi castani – Straniero, mi hanno già detto che ti devo trattare bene per quanto riguarda il mangiare e forse per altro … lo vuole il Sindaco! … Noi comunque, in questo forno, siamo sempre a disposizione di tutti gli abitanti di questo piccolo paese, e pure dei forestieri e stranieri che lo attraversano per andare a Bari, a Taranto, a Brindisi, nelle Calabrie …
Giovanni non rispose subito: pensò, prima di esprimere il proprio desiderio; sapeva che avrebbe messo in difficoltà il fornaio, ma aveva intuito che poteva ottenere quello che voleva…
Intervenne di nuovo il fornaio spinto dalla incertezza di Giovanni: “Ti vedo indeciso straniero. Ti ho detto che sono a tua disposizione! … Quando la mattina vengo in questo locale so che devo accontentare tutti, altrimenti perdo i clienti … ma tu non sei un semplice cliente, sei l’amico del nostro sindaco”!
Allora Giovanni disse: “Vorrei sapere se qui fate la fougasse à livre”.
Il fornaio lo guardò sollevando le sopracciglia, nella sua mente apparve un grande punto interrogativo. Con gli occhi spalancati per lo stupore esordì: “La f’kaz … la f’kaz … la f’kaz à Livre”?
“No, no, non è la f’kaz! … È un’altra cosa, è completamente diversa perché” …
Lo interruppe il fornaio: “La f’kaz à livre” …
“La fougasse à Livre“! lo corresse subito Giovanni.
“Tu puoi chiamarla come vuoi, straniero, per me è più facile chiamarla F’kaz à Livre … à livre … livre? … Non so cosa significa livre”!
“Nella vostra lingua livre significa libro”.
“E perché si chiama a libro”?
“Se me la fate fare, e la so fare bene, capirete subito perché mia madre, che era francese di origine, la chiamava fougasse à livre”.
“Va bene, voglio vedere come la fai! Mi hai riempito di curiosità. Il forno ora è pieno, fra poco verranno i clienti a ritirare il pane. La f’kaz à Livre te la farò fare domani mattina presto, verrò io a svegliarti”.
Si salutarono. Giovanni era contento come un ragazzino che ha vinto la sua battaglia. La consapevolezza di trovarsi fra gente amica lo aveva rasserenato.
Guardò il cielo azzurro che in quel momento era solcato da uno stormo di colombi; si spostò al centro della piazzetta, volse gli occhi verso Ovest, ammirò le torri, i merli del Castello, il campanile senza guglia della chiesa della Maddalena con la facciata bianchissima, le tre porte azzurre, e le tre scalinate indipendenti: una per ogni porta. Giovanni avrebbe voluto visitarla, ma non era possibile perché in quel momento era chiusa; decise di andare ad aprire la porta verde di quella casa che avrebbe abitato per qualche giorno.
L’8 gennaio del 1799, all’alba, il fornaio andò a bussare alla porta verde, Giovanni aprì subito perché era già sveglio. “Buon giorno, straniero”!
“Buon giorno, amico”!
“Straniero, non mi hai ancora detto come ti chiami”.
“Non me lo avete chiesto! … Mi chiamo Giovanni”.
“Io mi chiamo Luigi. Entrarono nel forno”.
“Straniero, hai dormito bene questa notte”?
“Ieri pomeriggio mi lasciai cadere di spalle sul letto, per pensare un po’ … per cercare di porre ordine ai miei pensieri, inavvertitamente mi addormentai completamente vestito; mi sono svegliato molto prima dell’alba. Comunque posso dire che il sonno mi ha fatto bene. Ora ho fame, ma mangerò più tardi”.
Luigi stette un attimo a pensare, poi si girò verso una tenda che celava un ingresso. “Rosa”! chiamò. Una mano spostò la tenda ed apparve Rosa, una donna matura, con gli occhi neri; un fazzoletto bianco le copriva i capelli.
Rosa guardò Giovanni, i suoi capelli biondi, i suoi occhi chiari, il suo viso … ebbe un tonfo al cuore … somigliava a suo marito che era scomparso da tanti anni. Esitò prima di parlare. “Luigi, che vuoi”?
“Giovanni farà la f’kaz à Livre, la faceva sua madre … impasterà nell’altra stanza, sul tavolo grande dove impastiamo noi”.
Al di là della tenda c’era una grande stanza, al centro era situato un ampio tavolo.
“Signore, cosa vi serve”? chiese Rosa.
“La farina, il lievito, il sale, l’olio, l’origano, un po’ di acqua tiepida, un matterello, un tagliapasta”.
“Ma sono tutte cose che utilizziamo noi”! esclamò Rosa. “Sta quasi tutto sul tavolo, a quel lato; anche la farina sta su questo tavolo, sta nel sacchetto bianco, l’altra sta in quel sacco grande poggiato al muro. L’acqua tiepida è nella pignatta che sta sul davanzale vicino alla bocca del forno, mentre il lievito sta in una coppa in quella credenza”.
Rosa andò subito a riempire una brocca d’acqua dalla pignatta e la poggiò sul tavolo.
“Scusate, ho dimenticato la teglia: mi serve una teglia rotonda che non sia grande”.
“Le teglie medie e piccole le abbiamo soltanto di creta di Rutigliano”. Spiegò Luigi.
“Non è un problema: utilizzerò una teglia di creta”.
“L’impasto ha bisogno di molta crescita”? Chiese il fornaio.
“Starà a crescere poco: il tempo che ci servirà per recitare dieci preghiere”.
“Straniero, lo sai che mi stai incuriosendo sempre di più”?
Giovanni si tolse i tre anelli e il giaccone grigio che indossava, poi arrotolò le maniche del maglione fin sopra i gomiti; volse lo sguardo intorno, vide che a un angolo c’era un treppiede in ferro battuto che sosteneva un catino bianco; sotto c’era una brocca anch’essa bianca, si avvicinò. Rosa lo raggiunse, prese la brocca e gli verso l’acqua sulle mani, poi gli porse un asciugamano. Luigi si tolse il grembiule e glielo dette.
Giovanni prese il sacchetto della farina e, ad occhio, versò sul tavolo il quantitativo che gli serviva, forse era un chilo, forse di più. Accarezzò la farina con i palmi delle mani disponendola a cono, come un vulcano; con il pugno fece pressione sulla cima, e nella farina si formò un piccolo cratere; andò a prendere dalla credenza la coppa, prelevò la palla di lievito, la sbucciò come si fa con la mela, poi la sminuzzò facendo cadere i pezzetti nella stessa coppa; aggiunse l’acqua e, con le dita, sciolse quei pezzetti di lievito, poi versò tutto il contenuto della coppa in quel piccolo cratere, fra la farina.
Piano piano, con le dita, cominciò a inumidire la farina; aggiunse un altro po’ di acqua; con i palmi delle mani tirò verso l’acqua tutta la farina, poi, con movimenti delicati, la unì, l’amalgamò, la compattò; iniziò a lavorare quella massa con delicatezza, poi energicamente: la tirava in tutte le direzioni allungandola e ripiegandola in due su sé stessa; la schiacciava con impeto, la raccoglieva a palla e la penetrava con i pugni; poi, facendo pressione con la parte inferiore dei palmi delle mani la spingeva in avanti sul piano del tavolo che si muoveva e cigolava, come un letto … sì come un letto! …
Quando l’impasto diventò omogeneo, sodo e liscio lo raccolse a palla. Rosa e Luigi si guardarono meravigliati: loro non avevano mai impastato a quella maniera: con tenerezza ed energia incalzante. Rosa, che aveva intuito cosa serviva in quel momento, andò a prendere dalla credenza una coppa più capiente e un tovagliolo. Giovanni fece un taglio a croce sull’impasto, lo sollevò con le due mani, lo adagiò nella coppa, lo coprì con il tovagliolo, e incominciò a parlare, ma la sua voce non era la stessa, stranamente era mutata.
“Tengo a dirvi che il più bello di questa preparazione inizia ora: dalle preghiere, mia madre riusciva ad incantarmi sempre, anche quando diventai un uomo”.
Si fece il segno della croce e, con le mani giunte, recitò nove preghiere, poi concluse così: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo Regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra; donaci il pane quotidiano, annulla i nostri debiti, come noi annulliamo quelli dei nostri debitori, allontanaci da ogni tentazione, e liberaci da tutti i mali, Amen”.
Si rifece il segno della croce, poi infarinò il piano del tavolo, vi posò l’impasto; prese il matterello e incominciò a stendere la sfoglia.
Si fermò per controllare lo spessore della sfoglia. “Posso smettere” disse, “Lo spessore è sottile al punto giusto”! Prese il taglia pasta, tagliò tutte le rotondità alla sfoglia, con quei ritagli di pasta fece una piccola palla. “Adesso questa sfoglia ha la forma di un quadrato, e la devo benedire con olio, sale e origano” spiegò Giovanni. Sollevò l’oliera, fece cadere tante gocce di olio sulla sfoglia e, con i polpastrelli, spalmò lentamente tutta la superficie rendendola lucida; spolverò il sale e infine l’origano.
“Questa sfoglia quadrata è simile a un libro” affermò Giovanni con voce suadente, e continuò: “È come un libro! … Un libro aperto che contiene la nostra Santa Fede; un libro aperto che contiene tutto il nostro amore per la terra che ci nutre, e ci consente di vivere … e la devo chiudere come si chiudono tutti i libri: la devo chiudere “a libro “.
Infilò gli indici delle due mani sotto i due angoli a sinistra della sfoglia, fece presa con i pollici, sollevò e piegò delicatamente una metà sull’altra facendo combaciare perfettamente i quattro angoli; poi versò gocce di olio anche sulla “prima di copertina”, spalmò con i polpastrelli e, come aveva fatto prima, spolverò il sale, l’origano; piegò un’altra volta una metà sull’altra, in lunghezza, e ripiegò ancora, fino ad ottenere un cordone rettangolare di pasta. Prese una teglia, versò dell’olio, e con le dita unse tutto il fondo.
Erano trascorsi molti anni da quando la madre era scomparsa, ma quel giorno era risuscitata, era presente e viva nella sua mente; gli parlava come quando gli insegnava a fare la fougasse à livre: “Giovanni, il cordone di pasta ha un lato chiuso, simile al dorso di un libro; devi fare una spirale con quel cordone, e devi sistemarla nella teglia … ricordi? … Dorso sotto e pieghettature sopra. Sulle pieghettature versa gocce di olio; con le dita devi ungere anche gli incavi fra una piega e l’altra. La pallina che hai fatto con i ritagli di pasta, segnala con la croce, ungila di olio e mettila al centro della spirale.”
Giovanni, sorridendo soltanto con gli occhi, portò a termine la preparazione con maestria.
“È pronta per essere infornata”! annunciò.
Luigi la prese e la mise nel forno. “Finalmente abbiamo visto com’è la f’kaz à livre”! esclamò.
“La fougasse à livre”! corresse Giovanni.
“La f’kaz à livre”! ripeté Luigi… Entrambi si misero a ridere.
Dopo mezz’ora Luigi e Giovanni la guardarono nel forno: sembrava la corolla di una rosa dorata in piena fioritura.
“È pronta! confermò Giovanni. Possiamo sfornarla”
Luigi la tiro fuori, e fu il primo ad essere inebriato da quel magico aroma. La sua curiosità non poteva attendere, andò subito a prendere un coltello, tagliò un pezzettino, era bollente, lo rosicchiò, il sapore lo mandò in estasi. “Lasciamola raffreddare un po’ e vi farò vedere io che fine farà”!
Dopo qualche minuto la divorarono tutta! Rosa insegnò a fare la f’kaz à livre a quasi tutte le donne di Sammichele di Bari…
Nel corso dei secoli nella f’kaz à livre hanno messo di tutto, però quella benedetta con l’olio di olive, il sale e l’origano è considerata sempre la preferita.
La ricetta moderna, la vera f’kaz à livre della tradizione Sammichelina :
- 600 gr di farina tipo 0 o 00;
- 1 lievito, sale e acqua quanto bastano.
IMPASTARE: far riposare per 20 minuti, poi stendere l’impasto (a sfoglia) … mettere l’olio spalmandolo sull’intera sfoglia; dopo pomodoro e origano sulla stessa sfoglia. Teglia cm 21. Infornare a 180 gradi. Niente patate, e non fate il rotolo prima di avvolgerla a spirale nella teglia, ma chiudetela più volte a “libro” prima di fare la spirale …
A Turi fanno il rotolo, mettono le patate ecc., e la chiamano F’kaz a sfuègh, che è anche buonissima … attenzione ai forni di Sammichele che fanno la F’kaz à sfuègh, e la vendono per F’kaz à livre.
La F’kaz à livre è chiusa a “libro”!!! La prima fu fatta l’8 gennaio 1799 “solo e soltanto” con olio e origano … con pochissima crescita, per cui, era anche croccante.
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