Giorno 155
E’ inconfutabile che la guerra in Ucraina sia diventata guerra di posizione. L’ago della bilancia del vantaggio pende, anche se di poco, dalla parte ucraina.
Orio Giorgio Stirpe
Forse a questo punto anche i più entusiasti fra gli appassionati della guerra di movimento si saranno rassegnati: il fronte in Ucraina ormai è bloccato dappertutto.
I soldati sono ovunque impegnati a scavare buche, trincee e ricoveri con l’idea di doverci restare piuttosto a lungo; in alcune zone, più che in altre, c’è un’attività di pattuglie nella “terra di nessuno” dove gli avversari cercano ancora di trovare un varco nelle linee nemiche, e le scaramucce che ne derivano offrono ai media affamati di notizie l’opportunità di impiegare la parola “attacchi” che tanto piace ad una fascia di lettori ed appassionati di videogames, i quali ignorano il significato tecnico della parola (si tratta di un “atto tattico elementare” effettuato per acquisire di forza, mediante la manovra delle forze sul terreno, un obiettivo predeterminato).
Gli opposti annunci ufficiali giocano a loro volta sull’equivoco, così abbiamo i russi che “continuano a progredire” in alcuni punti, e gli ucraini che “respingono attacchi” su diverse direzioni, ma ormai tutti gli istituti di analisi seri concordano che il conflitto ha assunto le caratteristiche della guerra di posizione.
Ieri, per la prima volta dall’inizio del conflitto, la prima pagina della CNN non mostrava in apertura alcun articolo dall’Ucraina. Oggi, la notizia più in evidenza è quella relativa alle foto di Olena Zelenska su “Vogue”, e alla loro opportunità: concordo che sarebbe stato meglio evitarle, ma il fatto stesso che costituiscano l’argomento principale sul conflitto è indicativo di come ci sia ben poco di significativo di cui parlare, e allora si passa al gossip.
È più fotogenica Olena Zelenska o Maria Zacharova? Certo che al di là dell’irriverenza al politicamente corretto, sarebbe bello ridurre la guerra a un confronto del genere.
Naturalmente non è così, e sul campo la gente continua a morire, ma comunque ad un ritmo minore di quello di due mesi fa.
Quando una guerra iniziata con un aggressore e un aggredito si stabilizza lungo un fronte statico, significa che attaccante e difensore hanno raggiunto un equilibrio, e quindi che l’invasione è fallita. L’iniziale vantaggio dell’attaccante è stato compensato con il sacrificio di un po’ di territorio per assorbire il potenziale offensivo nemico fino al suo esaurimento, fino al momento in cui l’invasore ha raggiunto il famoso “culmination point”; poi quando questi ha rifiutato di riconoscere il fallimento dell’operazione offensiva si è avuta una fase in cui le perdite reciproche sono montate senza alcun vantaggio significativo, e infine l’energia residua dell’attacco si è spenta del tutto.
Ora il potenziale offensivo di entrambe le parti è minimo e non consente l’avvio di alcuna azione potenzialmente risolutiva: al massimo qualche atto dimostrativo per saggiare le posizioni avversarie e dare fiato alla propria propaganda. Gli uomini sono esausti, i mezzi scarseggiano di carburante e di parti di ricambio, le unità hanno una capacità operativa ridotta, i depositi sono mezzi vuoti, le vie di comunicazione rovinate e troppo lunghe e i Comandanti sono a corto di idee realizzabili.
Gli esperti militari passeranno i prossimi dieci anni ad analizzare nei più minuti dettagli quanto accaduto fino adesso, ma la sostanza delle cose è abbastanza semplice: i russi hanno attaccato con un vantaggio iniziale più che consistente, ma evidentemente non sufficiente a supportare l’ambizione eccessiva del piano iniziale; tale vantaggio si è logorato incessantemente attraverso la conquista di una serie di obiettivi militari minori difesi dagli ucraini con un accanimento imprevisto, e i Comandanti dell’esercito invasore non sono stati capaci di adottare soluzioni alternative valide per correggere l’evidente scostamento fra la pianificazione operativa e la situazione reale sul terreno.
Le perdite subite per conquistare terreno privo di caratteristiche decisive hanno logorato il vantaggio iniziale dei russi, mentre gli ucraini assorbivano le proprie grazie alla mobilitazione generale e al concorso occidentale; in questo modo la differenza di capacità operativa si è ridotta fino a non lasciare sufficiente margine di vantaggio agli invasori, che hanno dovuto fermarsi.
I russi hanno ancora un forte vantaggio numerico in termini di mezzi, ma si tratta di armi e veicoli logorati dall’uso, e di qualità decrescente. Gli ucraini ormai hanno un vantaggio numerico in termini di uomini, che però nella maggior parte hanno un addestramento limitato e un equipaggiamento ridotto.
Non occorre essere un esperto militare per comprendere come a questo punto sia impossibile per entrambi intraprendere vaste operazioni offensive.
Ma non occorre esserlo neppure per vedere come grazie alla coscrizione obbligatoria il numero di militari ucraini continuerà ad aumentare con il tempo, mentre per le contraddizioni della politica interna russa quello dei militari russi può crescere solo con le reclute sessantenni. Mentre a causa delle rispettive relazioni internazionali l’Ucraina riceve nuove armi dall’America, mentre la Russia ne riceve alcune solo dall’Iran.
In queste condizioni è difficile immaginare come i russi possano recuperare un margine di vantaggio tale da poter riprendere l’offensiva contro un avversario che oltre ad aver assorbito le perdite si sta anche lentamente rafforzando.
Le posizioni difensive ucraine si sono costantemente irrobustite non solo grazie alla mobilitazione e agli aiuti occidentali, ma anche al fatto che il fronte si è notevolmente accorciato rispetto a febbraio, e quindi la densità dei difensori per ogni chilometro di fronte è cresciuta notevolmente; di contro, le gravissime perdite subite hanno impedito ai russi di aumentare il proprio sforzo locale. Perché di perdite irrimediabili si tratta: non saranno oltre quarantamila uomini come affermano gli ucraini, ma sicuramente si avvicinano ai trentamila; il che significa che più di un uomo ogni dieci fra quelli che hanno partecipato all’invasione iniziale è morto in combattimento, e – in base alle statistiche accertate negli ultimi cento anni di guerre – almeno altri due sono rimasti feriti in maniera tale da dover essere ritirati dal combattimento. Considerati anche i prigionieri, i dispersi, i disertori e coloro che hanno lasciato in altro modo l’esercito, dei combattenti iniziali ne rimane poco più della metà, rinforzati nel frattempo solo da mercenari mediorientali, volontari in età avanzata e coscritti male addestrati e demotivati.
Con gli equipaggiamenti le cose vanno ancora peggio: l’industria è ferma e non ne produce di nuovi, dai depositi ex-sovietici arrivano pochi mezzi malandati e obsoleti, e dall’estero arrivano solo i famosi droni iraniani (forse).
È vero che anche le reclute ucraine hanno un addestramento ridotto e che gli equipaggiamenti occidentali benché ottimi sono ancora numericamente scarsi, ma gli ucraini sono quelli che devono difendersi; è molto più facile difendersi con soldati poco addestrati ed armati alla leggera, piuttosto che attaccare con pochi uomini demotivati ed armi logore ed obsolete.
In conclusione: il conflitto è bloccato; lo dicevamo ormai da mesi, e a questo punto penso che sia innegabile anche per gli entusiasti della guerra di movimento.
È bloccato, e senza reali prospettive di una rinnovata offensiva che porti a compimento l’invasione. I russi sono impantanati in Ucraina, con una fascia di territorio devastato alle spalle da controllare contro una crescente resistenza partigiana e nessuna prospettiva di vederselo riconosciuto internazionalmente quale premio della loro aggressione.
Gli ucraini a loro volta hanno poche prospettive per una riconquista in tempi brevi, perché aver consolidato la difesa non è un viatico sufficiente per avviare una controffensiva, ma resta il fatto che i russi non hanno catturato niente che possa essere considerato decisivo: l’unico capoluogo di oblast conquistato dall’orso Vladimiro è Kherson.
Già, Kherson… Ma di Kherson ne parleremo la prossima volta.
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