Harry Belafonte alla Carnegie Hall
Martedì la rubrica di Antonio de Robertis (la voce della Radio) Novecento in Concerto. Grandi assembramenti per eventi memorabili
Antonio De Robertis
Tempo di lettura 7:30 min.
Della Carnegie Hall si è già detto qualche settimana fa ricordando l’orchestra di Benny Goodman e il concerto del Gennaio 1938, precisando quanto, fino a quella data, quel teatro fosse riconosciuto come luogo deputato alla musica classica. Se già in quella occasione, ospitando il jazz, un fosso era stato saltato, il 19 e 20 aprile del 1959 il fosso si trasformò in burrone, perché nella sala risuonarono le melodie e i ritmi delle folksongs, per di più non anglosassoni ma caraibiche, piene del calore e della passione che solo un artista dalle doti vocali straordinarie poteva trasmettere agli spettatori: Harry Belafonte.
Alla veneranda età di 93 anni, Belafonte è ancora con noi. Si è esibito in concerto per l’ultima volta a Locarno diciassette anni fa, ma la sua fama di autore e interprete di canti popolari di tutto il mondo – oltre che caraibici – e anche di attore cinematografico di buon livello, resta intatta.
In Italia, il suo primo 45 giri, uscito nel 1956, fu “Banana Boat Song” e il calypso divenne immediatamente il ballo più popolare. Il successo mondiale di “Calypso” -oltre un milione di copie vendute- il suo terzo long playing pubblicato quello stesso anno, tre anni più tardi gli spalancò le porte del tempio newyorchese della musica. A testimonianza di quelle due serate magiche, nella mia discoteca fa ancora bella mostra di sé, anche se notevolmente acciaccato, un doppio 33 giri.
L’apertura del concerto è maestosa: fiati, archi, percussioni e poi la voce di Belafonte, riconoscibile fra mille per quel timbro, sì brillante ma anche leggermente arrochito e, proprio per questo, groovy, singolarmente attraente. Questa è una delle sue interpretazioni più suggestive
Darlin’ Cora
La formazione di Harry Belafonte è giamaicana. Da lì, dal villaggio di Aboukir erano partiti i suoi genitori per stabilirsi a New York, nel quartiere di Harlem, dove Belafonte è nato nel 1927. C’è stato poi un breve ritorno – cinque anni – quando Harry ne aveva otto e poi il definitivo ristabilirsi a NY.
Lì, la scuola, poi il servizio militare durante la seconda guerra mondiale, gli studi da attore, la musica… il successo… la consacrazione con il concerto della Carnegie in un anno ricco di avvenimenti significativi al di fuori della musica; quasi un punto di svolta sul finire del decennio a cominciare dal Capodanno, in cui avviene un fatto della massima importanza storica: il dittatore Fulgencio Batista abbandona l’Avana e Fidel Castro entra nella capitale cubana in testa alle sue truppe.
Il 10 marzo, dall’altra parte del mondo, ecco un’altra area priva di pace: in Tibet, la resistenza culmina in una grande sollevazione popolare repressa dal governo cinese. Il 17 marzo, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, fugge dal Tibet alla volta dell’India. Un mese dopo, il governo cinese chiude le frontiere con l’India.
Fatti, com’è facile notare, che poco hanno a che vedere con la concordia che nulla come la musica ha la capacità di evocare.
Sylvie
Harry Belafonte è storicamente considerato come uno dei più grandi interpreti di canzoni popolari di tutto il mondo. Molti ne ricorderanno la straordinaria espressività vocale in “Cu cu ru cu cu paloma” e in “Hava nageela”: Messico e Israele, due culture lontane, diverse ma vissute con la medesima intensità e proprietà.
C’è un momento del concerto in cui Belafonte offre un piccolo saggio della sua profondità di studioso della cultura e delle tradizioni gospel, oltre che di notevole capacità di abile entertainer. È quando affronta, introducendolo con una spiegazione brillante e divertente, il brano tradizionale di certo più noto al mondo: “The Marchin’ Saints” -conosciuto anche come “When the Saints Go Marchin’ in” – nato come marcia funebre di accompagnamento ai funerali jazz della zona di New Orleans alla fine dell’Ottocento.
Dalla voce di Harry Belafonte, prima della musica si può ascoltare una brillante introduzione vagamente filologica, qui tradotta.
“Nel folklore americano troviamo grandi influssi della musica europea e ogni volta che mi sono chiesto cosa fosse accaduto, ho capito che tutte le canzoni originarie americane avrebbero potuto vedere la luce anche in altri luoghi. Per spiegare meglio, ho scelto la canzone “When the saints go marchin’ in”. Se fosse stata scritta in Inghilterra, avrebbe potuto essere un vecchio madrigale inglese. Così… Ma non è nata come un madrigale, quanto come l’opportunità per un gruppo di musicisti neri di New Orleans di suonare e celebrare facendo festa. Quello che viene fuori è musica che potrebbe accompagnare i funerali.”
The Marchin’ Saints
Per un artista longevo e felicemente arrivato oltre i novant’anni come Belafonte, ne contiamo altri che non sono arrivati neppure alla maturità. Fra questi, tre scomparvero nello stesso giorno, il 3 febbraio 1959, in un incidente aereo, gettando nella disperazione i teenagers di mezzo mondo: Richie Valens, Buddy Holly e J.P. Richardson. Ancora oggi negli Stati Uniti il 3 febbraio è ricordato come “il giorno in cui morì la musica”. In realtà, e per fortuna, la musica vive ancora, così come viveva, da protagonista, il 19 e 20 di due mesi dopo con le note e la voce di Harry Belafonte, che qui possiamo ascoltare nella canzone che gli aveva dato il successo mondiale tre anni prima
Day-O (the Banana Boat Song)
Ricordiamo ancora qualche altro avvenimento del 1959, l’anno del concerto.
Il 9 marzo viene venduta la prima Barbie, una bambola il cui enorme successo pare senza fine. Il 13 aprile viene inaugurato a Ispra, provincia di Varese, il primo reattore nucleare italiano. Il 14 settembre la sonda spaziale sovietica Luna 2 raggiunge la superficie del satellite, ma si schianta nei pressi del Mare della Serenità.
Dal 25 al 27 settembre, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, a Camp David, la residenza estiva del presidente degli Stati Uniti, s’incontrano Dwight Eisenhower e il segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Khruscev, e danno avvio a una prima fase di distensione delle relazioni internazionali.
Il 7 ottobre, ancora una sonda russa sulla Luna: finalmente la missione va a buon fine e “Luna 3” fotografa per la prima volta la faccia nascosta del nostro satellite.
Il 21 ottobre a New York s’inaugura il Guggenheim Museum, realizzato dall’architetto Frank Lloyd Wright.
Restiamo a New York con un’altra hit di Belafonte, ricca d’ironia: la canzone dell’uomo abbandonato da Matilda, fuggita in Venezuela e che, oltre tutto, si è portata via anche tutti i soldi. Meglio prenderla con filosofia.
Matilda
Harry Belafonte, lungo tutto l’arco della propria esistenza, si è impegnato anche in battaglie sociali in difesa della libertà, schierandosi sempre dalla parte degli oppressi: dalla Grecia dei colonnelli al Sud Africa dell’apartheid. Molti lo ricordano nel 1985 fra gli altri grandi artisti di “USA for Africa”, che cantavano “We Are the World”, per raccogliere fondi a sostegno dell’Etiopia afflitta dalla carestia, ma il concerto della Carnegie Hall è una vera pietra miliare, della sua carriera e della storia della musica popolare del Novecento.
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