Nuovi colori
In copertina Roberto Fabbriciani (foto di Andrea Cavallari, Londra 2017) NUOVI COLORI – I parte –
Roberto Fabbriciani
La fine del secolo ci chiama con forza assolutamente legittima a riflettere sui traguardi raggiunti. Nell’ambito musicale sono importanti, anche se talmente numerosi ed eterogenei, da destare un certo smarrimento. E’ evidente constatare che è difficile, se non impossibile, trovare una parola d’ordine unificante tra le articolate e problematiche scelte linguistiche operate dai compositori degli ultimi decenni. “…Oggi sembra più che mai inattuale – afferma Paolo Petazzi – il weberniano anelito all’assoluta purezza stilistica”.
L’atteggiamento più diffuso si identifica nel tentativo di produrre un linguaggio sicuramente variegato, che conduca la nuova musica a superare il suo adorniano “isolamento” dal mondo. Seguendo questa via l’attenzione si pone in larga parte sull’aspetto percettivo.
In alcuni compositori l’indagine sul timbro diventa l’aspetto centrale e determinante (Salvatore Sciarrino), in altri è centrale la considerazione di nuovi rapporti del suono con il tempo e con lo spazio (Luigi Nono, John Cage, Morton Feldmann). Un anelito abbastanza comune a molti è il superamento di una “esasperazione” virtuosistica passata, completamente digitale e per lo più meccanicistica, che lascia il posto ad una acuta ed intensa attenzione per il suono puro ed i suoi infiniti possibili. Ne è buon esempio il brano di Luigi Nono “A Pierre. Dell’azzurro silenzio inquietum” per flauto contrabbasso e clarinetto contrabbasso, dedicato da Nono al sessantesimo compleanno di Pierre Boulez ed eseguito a Baden-Baden il 26 marzo 1985.
Nel brano i due strumenti gravi interagiscono creando un continum sonoro in cui l’ascoltatore si “muove” stimolato ad un ascolto/scoperta. L’universo sonoro creato è particolarmente misterioso ed affascinante in virtù del fatto che i due strumenti dispongono di un ricco spettro sonoro che è stato ulteriormente allargato attraverso i microintervalli, suoni con “suono ombra”, “con soffio”, “con fischio”, “aria intonata”, ecc. ecc. Inoltre c’è un misto tra suoni lunghi, mossi attraverso dinamiche in precedenza inimmaginabili (tra p e pppppp, quasi impercettibili), e quelli trasformati dal live electronics (due apparecchi di ritardo di 12 secondi, filtro di quinta, harmonizer con trasposizioni variabili, eco di tre secondi). In generale il live electronics ha una parte importante nel procedere compositivo dell’ultimo scorcio di millennio. Per live electronics intendo la trasformazione elettronica del suono, il cui frutto è una nuova articolazione degli spazi sonori, rinunciando ad un ordine prestabilito di percezione uditiva, che supera tutta una prassi concertistica basata e concentrata sul palcoscenico. La struttura architettonica ospite dell’evento musicale supera i confini di se stessa e non condiziona più da sola lo spazio sonoro. Apparecchiature elettroacustiche, strumenti come circuiti di riverberazione, halaphon, circuiti di ritardo, sampling modificano il rapporto tra la musica e l’ascoltatore, ponendo quest’ultimo al centro di un sistema sonoro dai confini fluttuanti.
Strumenti come flauto e clarinetto, per loro peculiare natura, hanno progressivamente stimolato compositori a considerare possibilità esecutive non convenzionali. Talvolta, come già detto, potenziate e rinnovate attraverso il live electronics, dalle prime esperienze multi foniche, a tal proposito cito di Valentino Bucchi il Concerto (1969) per clarinetto solo ed il Piccolo concerto per flauto (1973), di Luciano Berio la Sequenza I (1958)per flauto, che affronta la problematica relativa ad una polifonia basata sulla molteplicità dell’azione, sino ad esempi in cui sono usati armonici artificiali come in Unity Capsule di Brian Ferneyhough (1973/76), procedendo poi verso un mondo sonoro sempre più rarefatto e sottile ma, allo stesso tempo, espressivamente più intenso.
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