Ray Charles al Palais des Sports di Parigi
Antonio De Robertis, giornalista arci noto ai cultori del Jazz e della musica d’autore -in radio, con Boncompagni, si guadagnò l’appellativo de la voce della radio- prosegue, da editorialista, su queste pagine con la sua rubrica: Novecento in Concerto – Grandi assembramenti per eventi memorabili.
Antonio De Robertis
Ray Charles. Se fosse un cocktail, sarebbe un terzo di jazz, un terzo di soul, un terzo di rhythm and blues, con una spruzzatina di rock.
Ray Charles, “the genius”, il genio, e mai soprannome fu più appropriato.
Ray Charles, un uomo col quale la natura è stata crudele, perché l’ha privato del dono della vista all’età di sei anni -probabilmente per una malattia esantematica mal curata (si propone qui una piccola riflessione per i no vax)- ma, è stata, al tempo stesso, generosa, perché lo ha dotato di una sensibilità straordinaria e di una genialità creativa e interpretativa che hanno ricompensato lui, il musicista, e arricchito noi, gli ascoltatori.
Il grande Ray ci ha lasciati nel 2004, all’età di settantaquattro anni. Oggi però viaggiamo nel tempo, risaliamo al 21 ottobre 1961, ed eccolo rivivere al Palais des Sports di Parigi, nel primo dei sei concerti in programma.
Sono passati quattro anni dalla pubblicazione del suo primo lavoro e, assieme alla sua eccezionale orchestra, si accinge ad affrontare il giudizio di un pubblico parzialmente prevenuto.
Nel 1961 Parigi è il cuore di una nazione che ha voglia di serenità e di allegria: il presidente De Gaulle, da pochi mesi ha annunciato pubblicamente la prossima indipendenza dell’Algeria. Si chiude, finalmente, un lungo periodo di dolore e sofferenza, almeno apparentemente. In realtà ci sono ancora forti tensioni e l’atmosfera che si respira in Francia è tutt’altro che idilliaca.
In un pezzo a firma L. Bo. –che ho estratto dall’archivio storico- il Corriere della Sera di domenica 22 ottobre 1961 annota una certa freddezza. I francesi, si sa, non sono facili all’entusiasmo e nella nazione aleggiano preoccupazioni che probabilmente la musica non riesce a cancellare del tutto.
A dispetto di quanto raccontato dall’ignoto autore e a giudicare dalla massa di applausi lunghissimi e scroscianti, il concerto di Ray Charles è un grande momento di gioia. Molto interessante è l’esecuzione, in una forma molto originale –il dialogo fra la voce e il flauto- di uno standard composto nel 1930 da Hoagy Carmichael su testo di Stuart Gorrel, Georgia On My Mind, scritto pensando a Georgia, la sorella di Carmichael, e divenuto, col tempo, l’inno ufficiale dello stato della Georgia.
Si diceva, in apertura, della soul music, quella dell’anima tipicamente nera che affonda le radici nel blues e che rappresenta senza dubbio l’essenza della cifra stilistica di Ray Charles. Qui, assieme alle sue vocalist, le Raelettes, ci offre un’interpretazione superlativa di un successo del tempo, un rythm and blues arricchito di spirito gospel che, proprio nella settimana del concerto parigino, occupa il primo posto della classifica di Billboard: Hit the Road Jack.
Nel concerto Ray Charles affronta anche il tema dei diritti umani, con un brano che punta il dito contro la tortura e in sala si crea un momento d’imbarazzo, come ben rimarcato nell’articolo del Corsera; poi passa a quelli assai più privati e individuali, reclamati da un uomo che vuole essere libero dalle catene di una donna che non ama e che non vuole lasciarlo andare. È l’ennesimo successo senza tempo di Ray: Unchain My Heart.
Nel 1961, la fama di Ray Charles è già arrivata anche da noi.
Anche l’Italia è attraversata da una gran voglia di vivere, per dimenticare definitivamente le ferite della seconda guerra mondiale. Il boom economico è alle porte. Con il benessere, gli italiani scoprono le gioie -e i dolori- del consumismo. Inizia così la corsa all’automobile, all’elettrodomestico, la scoperta delle rate e … delle cambiali!
Nelle case, non solo televisori, ma anche grammofoni e, per i più giovani – per le cosiddette “feste in casa” del sabato e della domenica pomeriggio – le fonovaligie e, ovviamente, i dischi; anche quelli di Ray, a 33 e 45 giri.
I giovani parigini, invece, nel 1961 hanno il privilegio di ascoltarlo dal vivo, il genio musicale che vede i suoi orchestrali e il suo pubblico con gli occhi della mente e che vibra all’unisono con il ritmo della sua musica. Un esempio? What I’d Say.
Per chiudere il cerchio dei talenti di Ray Charles, della sua innata capacità di fare musica col cuore a trecentosessanta gradi, niente di meglio di Hallelujah, I Love Her So, uno dei suoi primi grandi successi internazionali, come autore oltre che come interprete.
Negli anni Ottanta ho avuto la fortuna e il privilegio di intervistarlo.
Di quel momento porto con me la dolcezza e l’educazione con cui rispondeva ma, soprattutto, ho un ricordo visivo, indelebile: quello del suo sorriso.
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