Ricordi Parigini

Il titolo sembra ameno ma i ricordi si sono risvegliatii nel momento in cui ho letto e scritto del prof, Samuel Paty.

GP

Parigi è una città che amo a dismisura. Se a Roma io, pigro per natura, camminavo ore ed ore col naso all’insù (con rischio cadute sui sampietrini sconnessi dalla caduta dell’Impero romano d’occidente), ogni angolo, ogni strada era una scoperta architettonica fantastica, a Parigi, che non è che certo manchi di monumenti da ammirare, la mia attenzione era attratta dai volti delle persone. Eleganza e fascino senza limiti a parte. delle parigine del centro, sono stato più volte ospite di amici con la casa a pochi metri da Place de Gaulle, che tra Arco di Trionfo e Avenue des Champs-Élysées ti mozza il fiato per l’emozione, erano i volti dei mille passanti, tutti espressivi, di tante etnie, concentratì in quella città, come mai altrove, che mi affascinavano più di tutto. Non so dirvi, sarà stata la luce di Parigi, il suo tempo sempre cangiante, ma assumevano espressioni che erano pose e che non ho più ritrovato altrove. Ho rimpianto di non essere un ritrattista. Io ed il disegno abbiamo litigato da sempre. Con la fotografia me la cavavo, ma non rendeva l’idea.

Poi Parigi per me è divenuta simbolo triste dei viaggi della speranza. Accompagnavo mio padre in cura dal male del secolo a Villejuif nella clinica del prof. George Mathe. Un palazzo seicentesco tenuto da manuale. E durante due di questi viaggi sono accaduti gli episodi che Vi sto per raccontare, sperando di non annoiarvi.

Una di quei tardo pomeriggi, dopo essere stato a far compagnia a mio padre in ospedale, mentre mi dirigevo verso l’albergo, ricordo la scena come fosse oggi, mentre percorrevo una strada in discesa e poco avanti si apriva un largo con qualche aiola fiorita circondato da negozietti, vidi ad una ventina di metri un gruppo di nord africani che stava circondato una ragazzetta di una decina d’anni sui pattini a rotelle. Le mani allungate non lasciavano dubbi sulle loro turpi intenzioni.

L’orrore vinse la paura, non vedevo più un’estranea in quella creatura, ma una delle mie figlie. Fu un attimo, se ci avessi ripensato avrei forse perso il coraggio e cominciai a correre verso di loro sfruttando la discesa per acquistare velocità. Non ero totalmente disarmato, mi soccorrevano anni di arti marziali praticate seriamente. Gli ultimi due metri furono un balzo in mezzo al gruppo. Quanti fossero esattamente non so, direi più o meno cinque. A volo partirono i primi calci e colpi di mano e gomito. La sorpresa mi aiutò, rimasero sconcertati, non si aspettavano reazione alcuna, avevano il controllo del territorio, nessuno osava ribellarsi. Comparve qualche lama, ma il mio gesto aveva rincuorato i negozianti: vidi con la coda dell’occhio gente che usciva dai negozi armata di tutto, scope, mazze da baseball, sbranghe di ferro. La banda non ebbe esitazioni, alla spicciolata si diede alla fuga. Da quel giorno quando passavo da lì mi salutavano tutti. Ero diventato uno di loro. Vedere qualche volta quella ragazzina pattinare col suo gonnellino svolazzante ed ascoltare le sue risate felici e spensierate fu la mia migliore ricompensa.

Non così andò mesi dopo. E chi lo sapeva che la metropolitana parigina il sabato sera è sconsigliabile. Il fine settimana gran parte dei residenti lasciano la Città per raggiungere le case di campagna. Per cui la metropolitana diventa “terra di nessuno”. Mio padre aveva insistito molto, quella sera perché andassi al centro a vedere uno di quegli spettacoli che solo Parigi offre, perché cenassi al centro e non nel solito ristorante dell’albergo, non meno triste dell’ospedale. Così presi la metropolitana. Lui mi aveva consigliato il taxi. Io mulo non l’avevo ascoltato.

Fermata successiva e salgono sul vagone diversi neri tutti di dimensioni notevoli. Passati pochi minuti mi sono visto circondato: non apparivano minacciosi, ma decisi sì.. Speranza di sorprenderli zero. Quasi in fondo al vagone un bianco, si fa per dire, un tipo basso, secco, piuttosto scuro di colori, con baffetti, scollino e borsalino. Provai a parlargli, più per darmi coraggio che altro. Mi rispose in un italiano strascicato. Gli chiesi: “sei italiano?”. Risposta: “No! Siculo sono”. Non si sentiva tanto italiano ma ci eravamo scambiati due parole. I neri lo guardarono lui fece un cenno del capo e mi lasciarono perdere. Inutile precisarlo, alla fermata successiva, prima che il “siculo” cambiasse idea sono sceso prudentemente ed ho proseguito con un taxi, dove una simpatica donnona tassinara mi spiegò, appunto, che non era il caso di salire in metropolitana il fine settimana e che avevo auto una fortuna inaudita. La serata trascorse divertente ed interessante. Avevo 32 anni, a quell’età le disavventure si dimenticano in un attimo.

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