Un giovane professore del sud emigrato al nord per lavorare, ma…

Intervista ad un giovane professore del sud emigrato al nord per poter lavorare, ma lo Stato potrebbe rovinargli il futuro

Rocco Michele Renna

Intervista a un ragazzo del sud, costretto ad emigrare al nord per mancanza di lavoro, e lo Stato ci mette del suo per amplificare il suo disagio lavorativo.
Un ragazzo, un precario, un docente con contratto a tempo determinato, che si è ben integrato nel tessuto nordico, ma grazie all’ultimo contestatissimo concorso per docenti di scuola secondaria, concorso che ha sollevato molte proteste contro il MIUR, per i numerosissimi errori nella predisposizione e nel modo di svolgimento del concorso stesso, vede il suo futuro lavorativo piuttosto nero.

Ascoltiamo quindi il Prof. Antonio Moliterni, docente di Matematica al Bolisani di Isola della Scala (Verona) e scrittore di molti libri di narrativa per tutte le età.

D. Sig. Moliterni, ci parli di lei e del suo enorme piacere nell’insegnare la matematica ai suoi alunni e del suo piacere di scrivere libri di narrativa?
R. Salve, innanzitutto la ringrazio per avermi voluto intervistare. Rispondo prima alla seconda domanda: la volontà di scrivere libri di narrativa è nata da una situazione un po’ particolare. Io soffro di una malattia rara degenerativa, la CIPO, della quale non esistono cure e con la quale sono costretto a convivere e a fare i conti tutti i giorni.

Anni fa, in uno dei periodo più bui della mia convivenza con la CIPO, dopo essere entrato in un tunnel di forte depressione che mi aveva spinto ad abbandonare qualsiasi cosa, compreso suonare la chitarra, iniziai per gioco a scrivere e vidi che la cosa mi piaceva. Da qui, essendo dotato di una fantasia niente male dato che per molti anni ho fatto parte del gruppo scout AGESCI Gravina 1 (all’interno del quale mettevo a disposizione tutto il mio estro creativo), iniziai quella che fu la stesura del mio primo romanzo, Wolf’s Eyes, che vide la luce nel 2011; poi ci presi gusto e ne scrissi altri, molti dei quali inediti e che faccio leggere a chi ha piacere e voglia di leggere.

Per quanto riguarda la prima domanda, beh, diciamo che chi mi conosce crede ingenuamente che io abbia una passione smodata per la letteratura. In realtà non è proprio così, poiché essendo laureato in Economia e Commercio ho cominciato a nutrire un forte amore verso la statistica e la matematica, mettendo da parte quella che fu la mia passione iniziale (l’economia aziendale).

Mi pento, infatti, di essermi laureato in economia: a oggi credo che la mia vera vocazione sarebbe stata una facoltà tra fisica, matematica o scienze statistiche.

Insegnare mi permette di fare un po’ quello che facevo quando ero parte degli scout: essere a contatto coi ragazzi e coi più giovani, mettendomi a loro disposizione. Credo che il mestiere di insegnante sia tra i più belli e appaganti al mondo, anche se economicamente ancora troppo bistrattato. È un po’ come fare lo scout, ma con lo stipendio.

È un lavoro che svolgo anche gratuitamente quando alcuni studenti mi chiedono una mano. Non ho mai lavorato esclusivamente per soldi, un po’ come Patch Adams svolgeva la professione di medico.

Tra lo scoutismo e l’insegnamento esistono un’infinità di analogie: i metodi sono molto affini. Insegno applicando quasi alla lettera il metodo scout: imparare divertendosi e giocando, così i ragazzi studiano divertendosi e non annoiandosi.

D. Quali problemi sta incontrando, se ne sta incontrando, insegnando in una terra che non è la sua?
R. Venire in Veneto non è stato facilissimo. Innanzitutto, ho dovuto spostarmi nell’arco di 24 ore: mercoledì alle 9 di mattina ero a Gravina, giovedì alle 6 di mattina ero a Verona e non sapevo neppure dove avrei pernottato. Nell’arco di mezza giornata ho trovato un appartamento in cui stare (una stanza, in realtà); poi ho cominciato a lavorare nella mia scuola, l’Istituto di Istruzione Superiore “Ettore Bolisani” di Isola della Scala (sede di Villafranca di Verona).

Quando sono approdato in Veneto mi sono portato dietro innumerevoli pregiudizi, molti (probabilmente tutti) dei quali infondati, i quali facevano leva su un presunto razzismo nei confronti di noi gente del sud. Invero, i miei colleghi (tutti, nessuno escluso), partendo dalla Vicepreside, si sono dimostrati comprensivi e disponibilissimi nei miei confronti, aiutandomi quando ero in difficoltà. Il Bolisani, a oggi, è la mia seconda famiglia, anche se sono conscio del fatto che, prima o poi, sarò costretto a lasciarlo a causa della mia condizione da precario.

D. Mi permetto di chiamarti Antonio e darti del tu, in merito al recente concorso per l’insegnamento quali problemi hai incontrato?
R. Il nuovo concorso è andato a stravolgere quella che era la modalità del precedente metodo di reclutamento, secondo il quale si davano da svolgere delle tracce ai candidati i quali, poi, dovevano sviluppare un tema, mettendo in risalto, oltre alla conoscenza della materia, anche quella inerente al metodo, alla pedagogia e alla psicologia della didattica. Così facendo, però, si lasciava alla discrezione della commissione giudicante un’enorme soggettività nella valutazione.

Il nuovo metodo di reclutamento, invece, prevede la risoluzione di 50 quesiti a risposta multipla, di cui 40 inerenti alla materia, 5 di inglese e 5 di informatica. Il problema è che chi ha posto in essere la procedura concorsuale ha vietato categoricamente l’utilizzo, da parte dei candidati, di strumenti come carta e penna per svolgere i calcoli. Personalmente ritengo un’enorme ingiustizia una cosa simile: non si può ridurre la capacità di problem solving come qualcosa di oggettivo: ognuno ha il proprio metodo di risoluzione dei problemi.

Risolvere sistemi parametrici, individuare nelle coordinate dei punti nel piano le formule di bisezione degli archi di coseno e seno camuffate in forma parametrica, sviluppare serie di Taylor, derivare con Hȏpital cinque volte una funzione, tutto a mente, diventa estenuante se lo si fa su 40 quesiti, un paio dei quali teorici e quasi tutti su argomenti che in un istituto tecnico (ma anche in uno scientifico) non faresti.

Questo dimostra l’incapacità, di chi ha posto in essere il concorso e le domande, di conoscere davvero cosa viene trattato a scuola: posso capire che se si è insegnanti si debba avere una conoscenza a 360 gradi della materia, ma incentrare quasi esclusivamente un concorso su argomenti che in un Istituto Tecnico non tratteresti o, al più, accenneresti, mi è sembrata una presa in giro. Poi, per carità, magari con carta e penna sarebbe stato tutto più fattibile (anche se non voglio essere ipocrita al punto da dire che con quegli strumenti compensativi avrei sicuramente superato il concorso, anzi), ma assistere a candidati – molti dei quali già insegnanti – che svolgevano i calcoli sulla mano o sulle braccia è stato avvilente e mortificante per la nostra professione, dimostrando un assoluto disinteresse nei nostri confronti.

Tuttavia, alla luce di questa esperienza ritengo di dover migliorare: voglio studiare ancora, voglio imparare, ho sete di conoscenza. Se c’è una cosa che questo concorso mi ha lasciato è la voglia di mettermi in gioco e studiare.

D. Secondo te, Antonio, questo concorso e il relativo prossimo è da rifare e perché?
R. Il concorso è sicuramente da rifare, ma non in questa modalità. Una crocetta messa al posto giusto (tenendo conto che molte risposte traevano in inganno), non può dare una valutazione oggettiva delle capacità di un insegnante che non sono solo quelle di conoscere la materia ma, soprattutto, quelle di saperla trasmettere.

Si può essere ottimi cultori della materia ma pessimi insegnanti (sotto il profilo pedagogico-didattico): secondo me è questo che il MIUR dovrebbe valutare, anziché escogitare ogni anno come renderci impossibile la scalata alla conquista della nostra professione.

D. Antonio, hai ricevuto comunque tanti segni di stima dai tuoi alunni e dal tuo Dirigente, nonché dai tuoi colleghi? Pensi di rimanere al Bolisani, oppure pensi di tornare ad insegnare nella tua terra natia?
R. Se dovessi risponderti dando retta al cuore, ti direi senza pensarci che resterei qui tutta la vita. Mi sono completamente integrato, ho un ottimo rapporto coi miei colleghi, i miei studenti e, in generale, gli studenti della scuola mi adorano e io amo loro. È un po’ come fossero tutti miei figli e questo mi condiziona parecchio nella mia scelta: non riuscirei ad abbandonare tutti, mi piacerebbe portare le seconde dello scorso anno in quinta e vederli diplomare, ripetendo questo iter ogni anno. Ma so già che è impossibile: sono un precario, un docente con contratto a tempo determinato.

A settembre non so già se sarò ancora qui, in provincia di Verona, se lavorerò, né dove lavorerò. Anzi, con l’ombra del nuovo concorso straordinario al quale, ahimè, non posso partecipare, poiché non in servizio da almeno tre anni, temo che la mia avventura rischi di concludersi a giugno.

Certo, tornare qui in Puglia, magari insegnare non dico nel mio paese ma in un paese limitrofo, non sarebbe male. Ma al momento non me la sento di abbandonare i miei alunni.

Al momento, l’unica certezza è che ho molto da imparare come insegnante. Insegno da soli due anni, troppo poco per poter dire di conoscere questo lavoro e troppo poco per ritenermi un buon insegnante. Credo di essere ancora molto lontano da qualcosa che somigli a un discreto insegnante.

D. Ha ancora senso organizzare concorsi del genere in un periodo storico come il nostro pieno di problematiche e di contraddizioni politiche?
Ti risponderei di nì. Sicuramente occorre un metodo di reclutamento, ma non come l’attuale.

In alcuni Paesi all’estero il reclutamento avviene presentandosi dal Dirigente, mostrando il proprio curriculum e svolgendo un anno di prova: poi si è assunti. Qui prima ti bocciano in sede di concorso ordinario, poi promuovono tutti in sede di concorso straordinario (visto che hanno deciso di promuovere tutti). Mi chiedo il senso di tutto ciò.

Un insegnante è un essere umano: se non è dotato di amore e empatia, difficilmente potrà essere un buon insegnante. Siamo chiamati a educare e a essere coinvolti nelle sfere personali delle vite dei nostri studenti, i quali costituiscono tanti micro mondi ai quali noi ci affacciamo e verso i quali siamo chiamati a interagire.

Stando dall’altra parte della cattedra vedi e conosci molte cose che quando eri seduto tra i banchi ignoravi. I ragazzi di oggi vivono in un’altra realtà, completamente diversa da quella della mia generazione, a sua volta diversa da quella di mio padre o dei miei zii. Non si può liquidare tutto con “ai miei tempi”, perché questi sono i tempi attuali. Una cosa che, probabilmente, sfugge a chi ci governa.

Concludendo: Non basta che si sia costretti ad abbandonare la terra natia per poter lavorare, questa nazione matrigna ti costringe pure a ritornare con le pive nel sacco perché un burocrate ha organizzato un concorso in modo fallace, approfittando delle condizioni di selezione e assunzione che favoriscono solo “poche persone” a danno di molti.

Il Nostro Antonio ma non solo lui, tutti quelli come lui adesso vivono nel timore di non poter più lavorare e meno male che l’articolo uno  della Costituzione italiana dice che :
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Ecc ecc. ma sul lavoro di chi? E per chi? Se questo Stato non trova il modo di far lavorare i suoi cittadini allora ha tradito la sua stessa costituzione, quindi è ora che si cambi, che si rinnovi per il bene di tutti e di tutta la brava gente del sud, e non solo, che è costretta ad emigrare per trovare lavoro, dato che la burocrazia italiana rende fallace finanche la Costituzione.

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