Aung San Suu Kyi condannata a 4 anni di carcere
I reati commessi dalla leader birmana, deposta dai militari, sono due: avere incitato la popolazione che ha poi provocato disordini pubblici, e violazione delle regole sanitarie per contrastare il Covid
Gianvito Pugliese
La leader birmana Aung San Suu Kyi, deposta da un colpo di stato dei militari di dieci mesi or sono, è stata condannata a 4 anni di carcere dalla stessa giunta militare. I reati per i quali è stata condannata sono quello di incitamento alla rivolta contro i nuovi governanti e di violazione delle regole anti-Covid.
Quella di oggi potrebbe essere la prima condanna, con altre a seguire. Ricordiamo che Aung San Suu Kyi era agli arresti domiciliari, allorchè fu insignita nel 1991 del premio Nobel per la Pace, ed ora dovrà affrontare altri processi e rischia di dover scontare decine di anni di carcere.
Aung San Suu Kyi, che ha 76 anni, è detenuta dal primo febbraio scorso, giorno del colpo di stato. E da quel momento è stata accusata di violazione della legge sui segreti ufficiali, di importazione illegale di walkie talkie, di frode elettorale, di corruzione. I diversi capi d’accusa con processi distinti creati ad arte potrebbero costare alla premio Nobel birmana 15 anni di carcere ciascuno.
Anche l’ex presidente Win Myint è stato condannato a quattro anni con le stesse accuse, ma la giunta ha fatto sapere che nessuno dei due verrà per ora portato in carcere: entrambi affronteranno dalla capitale Naypyidaw, dove si trovano attualmente, i processi sulle ulteriori accuse.
La condanna a due anni per incitamento si riferisce alle dichiarazioni di condanna pubblicate dalla Lega nazionale per la democrazia, il partito dell’ex leader, subito dopo il colpo di stato dei generali, che evidentemente pretendevano di avere il battimani da parte delle Autorità birmane deposte illegalmente.
Quanto alla violazione delle norme anti Covid, che è costata la condanna ad altri due anni, l’accusa si riferisce alle elezioni dell’anno scorso, vinte dal partito di Aung San Suu Kyi a grande maggioranza, è assolutamente oscura poiché il governo ha imposto il segreto istruttorio sul processo. I giornalisti non hanno potuto assistere alle udienze del tribunale speciale a Naypyidaw, e agli avvocati di Suu Kyi è stato vietato di parlare con i media.
L’epurazione è cominciata. Nelle scorse settimane, altri esponenti della Lega nazionale per la democrazia sono stati condannati: un ex ministro a 75 anni di prigione, e uno stretto collaboratore di Suu Kyi a 20 anni.
“Le dure condanne inflitte a Aung San Suu Kyi con queste accuse fasulle sono l’ultimo esempio della determinazione dei militari a eliminare ogni opposizione e a soffocare le libertà in Myanmar“, è il commento del vice direttore regionale di Amnesty International, Ming Yu Hah.
Michelle Bachelet, commissaria Onu per i diritti umani: la condanna “a seguito di un processo fasullo in un procedimento segreto davanti a un tribunale controllato dai militari è solo una sentenza motivata politicamente“.
Liz Truss, ministra degli Esteri britannica ha criticato duramente la sentenza: “la detenzione arbitraria di politici eletti rischia solo di provocare ulteriori disordini. Il Regno Unito chiede al regime di rilasciare i prigionieri politici, di avviare il dialogo e consentire un ritorno alla democrazia“.
In Italia, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, ora alla guida del Comitato parlamentare sui diritti umani: “Far morire dissidenti in carcere è la strategia del regime in Myanmar contro oppositori come Aung San Suu Kyi. Condannata con false accuse che potrebbero costarle fino a 104 anni di carcere. La comunità internazionale faccia di tutto per sostenere il popolo birmano“.
Ma la Giunta militare birmana golpista mostra sprezzante disinteresse per la pressione internazionale e gli appelli a ristabilire la democrazia. I generali continuano a reprimere i manifestanti anti-golpe. I media sono imbavagliati e l’unica fonte attendibie, quella delle Ong riferisce che da febbraio oltre 1.300 persone sono state uccise e più di 10.000 arrestate. Ancora ieri, nella sola Rangun 3 feriti ed 11 arresti.
Sarebbe interessante effettuare un sondaggio e vedere quanti ricordano il colpo di stato del 1° febbraio e la strage di oppositori compiuta dai militari birmani nei giorni successivi. I dittatori ostentano sicurezza e fingono indifferenza a critiche e condanne del loro operato. Ma non è davvero così: giocano in realtà la carta, purtroppo assai spesso vincente, del dimenticatoio. Loro vincono solo quando noi ci stanchiamo di osservarli e giudicarli. Non credo sia onesto da parte di popoli che, come il nostro, si autodefiniscono civili, ignorare la tragedia del popolo birmano, o accantonare anche se solo per un attimo i casi di Giulio Regeni, torturato ed ucciso in Egitto, AlexeJ Navalny incarcerato con una farsa di giudizio in Russia, Peng Shuai fatta scomparire dalla scena pubblica in Cina o, da ultimo di Aung San Suu Kyi in Birmania di cui si siamo appena occupati.
Ci piaccia o meno ammetterlo sono solo la punta di un colossale iceberg sommerso. Per un personaggio noto ed importante di cui abbiamo notizia anche se col contagocce, un numero imprecisato ed imprecisabile di soprusi viene commesso dai Paesi dove la democrazia ed i diritti civili sono un inutile orpello, un costoso optional del quale meglio fare a meno. Ogni essere umano carcerato a torto e privato dei suoi diritti essenziali, ivi compreso quello ad una vita dignitosa per sé ed i suoi cari, è un crimine che grida “giustizia”, che non può e non deve rimanere schiacciato e nascosto dall’eterno conflitto tra potenti e gente comune.
I potenti sono tali però solo perché la gente comune gli permette di esserlo. Sono certamente forti del loro potere, delle amicizie, quando non complicità, di personaggi altrettanto potenti, ma alla fine siamo noi tutti che permettiamo loro di esserlo. Scrivo quì una frase che Martin Luther King usava ripetere: ” Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni” e che abbiamo riportato nell’articolo su Papa Francesco a Lesbo. E’ l’indifferenza dei buoni, il loro, pur legittimo desiderio di quieto vivere, il chiudere un’occhio dinanzi a palesi ingiustizie arrendendosi senza combatterle, ascoltare il “chi te lo fa fare” degli ignavi che permette soprusi, angherie, ingiustizie contro le quali non è lecito arrendersi.
Ricordiamoci sempre del sermone del pastore Martin Niemöller sull’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.
Credo non si possa aggiungere altro dopo queste parole.
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