Il mio Petruzzelli: Gianni Dellino 1
Il racconto della prima fase del restauro del Petruzzelli, post incendio doloso, in cui, con la Fondazione Piccinni, fummo tra i protagonisti assoluti. Ricordi e fatti inediti, memorie di coprotagonisti scomparsi e non.
Gianvito Pugliese
Quante volte ho pensato d’iniziare questo racconto, che tanti autorevoli Colleghi mi hanno proposto di scrivere a quattro mani e raccogliere in un libro. Quante volte ho pensato di scriverlo, così come faccio oggi, su una delle tante testate a cui ho collaborato, ma ho rinviato. Vanno scritti questi capitoli -o semplici episodi- anche per onorare il merito e la memoria di coloro che ebbero un ruolo importante in quella mitica risposta morale, che fu la prima fase del restauro del Petruzzelli. Una risposta morale, e spiegheremo perchè fu tale, al più grave delitto che a mio giudizio si sia mai consumato a Bari. Bruciare un teatro, il massimo teatro cittadino e regionale, un monumento oltre che alla cultura -nella storia della sua costruzione, ultimata nel 1903- anche a quella intraprendenza levantina, patrimonio positivo dei baresi di fine ottocento-primi del novecento-. Quel rogo fu e resta -almeno per chi la cultura l’ha difesa ed amata per una vita, il peggior delitto che esseri umani possano concepire e compiere. L’assenza di una verità giudiziale, peraltro, la peggior vergogna della nostra magistratura, che in altre occasioni ha tenuto comportamenti da manuale. Il Teatro Petruzzelli fu vittima di un incendio doloso, appiccato nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre 1991, con premeditazione e finalizzato a far danni anche peggiori di quelli che si sono verificati. Se non fosse esplosa la cupola la devastazione avrebbe potuto riguardare mezzo quartiere; c’erano distributori di benzina limitrofi.
Oggi scrivo, anzitutto, del primo incontro con un uomo concreto e schivo, un romano di nascita e barese d’adozione, che avrà una funzione unica ed inimmaginabile nella “salvezza” di quel che restava del Petruzzelli. Era figlio di un generale pilota dell’aronautica. Di lui, di Gianni Dellino, ingegnere e solido costruttore edile, colpiva la passione per Bari, dov’è vissuto con l’amore della sua vita, Gigliola Buffoni Dellino, la compagna, la moglie e la madre dei suoi due figli.
Sarà stato la seconda metà di maggio del 1991. Ero ricoverato in terapia intensiva nella cardiologia universitaria del Policlinico barese. Il 16 del mese in un controllo cardiaco casuale avevano scoperto che una decina di giorni prima avevo avuto un infarto, anche piuttosto serio. Ricordo la data solo perchè coincide col giorno in cui i miei quattro pacchetti quotidiani di Malboro rosse, pacchetto rigido, sono divenuti solo un atavico desiderio, una sorta di “sogno erotico”. Avevo da poco compiuto 41 anni. Colesterolo perfetto, trigliceridi anche. Certo, fumo parecchio e vita disordinata, ma soprattutto tanto lavoro, tanto veleno, tante umane delusioni.
Ero attaccato a tante di quelle flebo e macchinari, che dovevo somigliare più ad un Cristo in croce che ad un essere umano. Io stavo davvero male e, quindi, avevo il letto classico, l’uomo che sarebbe divenuto, poi, il mio migliore amico, era li solo per un accertamento, in parte avviato e da completare. Lo misero sul calare della sera su una lettiga -letti esauriti- che sistemarono accanto al mio letto. Io ero attaccato agli allarmi, lui -che non correva pericolo!- no. Nel dormiveglia che è una caratteristica del paziente ospedalizzato, mi girai verso di lui e, nonostante la luce notturna -piuttosto fioca- mi accorsi che il mio vicino era cianotico. Cacciai un urlo. Accorsero gli infermieri ed il medico di guardia, che chiamò immediatamente i colleghi reperibili: lo portarono nella stanzina attigua e, fortunatamente, riuscirono a rianimarlo.
Lo sistemarono, ore più tardi, in un letto di fronte al mio, ma coperto da un separè. Giorni dopo me lo trovai in piedi accanto al letto, voleva conoscermi, voleva dirmi un grazie. Quell’urlo, riteneva, gli avesse salvato la vita. Poi con Gianni e Gigliola non c’era sabato che non ci fosse la pizza insieme -e Gianni ci portava sempre in posti diversi, magari anche distanti, che aveva scoperto nella settimana- e l’immancabile film a seguire. Poi, decidemmo d’invertire l’ordine dei fattori, perchè con la pizza ed un bicchiere di vino o di birra e alcuni film di quegli anni, “che sei intellettuale, se riesci a non far capire un…… accidenti di nulla allo spettatore”, finiva che ci si addormentava spesso e volentieri. Erano troppo comode le poltrone. Troppo rumorosi il suo ed il mio russare.
Gianni era un fior di costruttore, stimato dai Colleghi, oltre che ingegnere edile, con una sua fiorente impresa che costruiva davvero bei palazzi, rischiando in proprio. Suo cugino e progettista, l’ing. Alfonso Rossignoli, un’impiantista come pochi, che se non erro aveva collaborato a diversi progetti di Renzo Piano. E devo ad Alfonso un ennesimo ringraziamento, perché proprio lui mi ha recentemente fornito l’elenco dei progettisti e delle imprese specializzate nel restauro e ricostruzione, che Gianni Dellino, con la sua innata capacità di creare sinergie, riuscì a mettere insieme. Sì, nessuno lo sa, se lo ricorda o vuol rammentare; altri si presero i meriti, rilasciarono interviste e vissero il momento di gloria mediatica, ma tutto fu opera di Gianni e partì da una chiacchierata dell’ennesimo sabato sera.
La Fondazione Piccinni -sintesi di Fondazione Concerti “Niccolò Piccinni” di Bari, e vi risparmio per ora, care lettrici e lettori, la denominazione utilizzata, precedentemente, dal 1936 al 1954, era stata chiamata dalla famiglia Messeni Nemagna proprietaria del teatro ed invitata, attraverso un contratto con la stessa, a tentare di far proseguire l’attività lirica del Teatro di tradizione Petruzzelli. Accolse l’invito e mal gliene incolse, affermazione che capirete appieno in seguito. In realtà il discorso-proposta me lo fece per primo il prof. Michele Costantino, legale di un quarto della proprietà, quella facente capo a donna Vittoria Messeni Nemagna. Ero stato allievo di Michele, credo di Diritto Civile. Michele avrebbe voluto che proseguissi gli studi con lui. Io. da un lato ero attirato dal penale (tesi sperimentale, infatti, col prof. Gaetano Contento), il praticantato fatto nello studio di Don Armando Regina, il docente di procedura penale, presidente dell’ordine ed unico vero cassazionista del foro di Bari. Poi vennero Scienza delle Finanze e diritto tributario, come assistente prima e docente poi dei corsi di specializzazione dell’Ateneo barese.
La Fondazione Piccinni si prestò pro tempore ad assumere l’incarico e la carica di Ente promotore della stagione lirica del Teatro di tradizione Petruzzelli. All’epoca ero Direttore Generale della Fondazione, chiamato a quel ruolo dal Presidente, Michele D’Erasmo, mitica figura di intellettuale barese, l’uomo che portò a Bari Nino Rota e di cui scriverò presto in “Donne e uomini di Puglia”. Ne diventerò presidente il 31 dicembre 1993 due anni e mezzo dopo l’incendio. Erano cominciati i contenziosi, gli strani comportamenti, le inspiegabili difficoltà di ogni genere. Comunque, privata delle sovvenzioni del Petruzzelli le rimesse da Roma alla Puglia si riducevano a briciole, un lusso che la Puglia musicale non poteva permettersi e che la Fondazione decise di scongiurare assicurando temporaneamente una prosecuzione dell’attività.
Quando dico “che la Fondazione si prestò pro tempore o a tempo” lo affermo a fondata ragione. La lirica non era e non è il nostro “mestiere”, noi eravamo tra le più importanti società di concerti d’Italia, avevamo un compagnia di danza tra le prime tre del Paese, Corsi qualificatissimi, un Festival “Korostas” che altre regioni ci invidiavano. Ma la lirica è altro: simile, contiguo, ma sempre altro. Tant’è, che chiamammo Katia Ricciarelli a ricoprire la direzione artistica della stagione lirica del 1993.
Ma stiamo andando troppo avanti. Torniamo indietro. Non ci vuol molto a capire che gestire il Teatro senza teatro, ovvero fare il melodramma nel Piccinni, con contrabbassi e timpani nel palco di proscenio lettera B e dirimpettai tromboni, basso tuba ed arpa, nel palco A, è patetico. Certo il Piccinni era la nostra sede naturale, la Fondazione dei Concerti del Liceo Musicale Pareggiato di Stato “Niccolò Piccinni” – visto che il nome originario è spuntato ?- era, infatti, la società dei concerti di un ente di formazione musicale consorziale tra Comune e Provincia, e la sede naturale delle attività, garantita dal Comune era il Teatro Piccinni, ma per la concertistica, la danza o certa danza, non certo per allestimenti lirici che richiedevano ben altri spazi.
Ne accennai a Gianni Dellino, senza secondi fini, ovviamente. Così come lui mi confidava le disavventure quotidiane dell’azienda -la mala burocrazia non è un male di oggi-. Dissi a Gianni che sarebbe stato bello che a farsi carico della ricostruzione ci fossero le nostre piccole e medie imprese edili specializzate, quelle dei sub-appalti. Quelle vere, non gli appaltatori che non rischiano mai e fanno lievitare la spesa. Mi erano, ma non solo a me, particolarmente invisi in quel momento, dappoichè era emerso che mentre il teatro ancora bruciava, nella sede de La Gazzetta del Mezzogiorno si era tenuta una riunione delle grandi famiglie degli appaltatori baresi -De Gennaro G., Matarrese, Andidaro, Romanazzi -rappresentato quest’ultimo dal direttore della Gazzetta, Giuseppe Gorjux , essendo Stefano Romanazzi a Milano per una coronografia, o forse proprio per installare alcuni stand-by coronarici. Fu dato per presente anche Gianfranco Dioguardi. Ma il prof. Dioguardi, il giorno dopo, diffidò dal fare il suo nome e portarlo presente in una riunione, a cui non aveva partecipato volutamente, ritenendola se non opaca, quanto meno non trasparente. Ed i signori riuniti, che sanno che il teatro non è assicurato (gli inquirenti ci metteranno un paio di mesi a scoprirlo), offrono venti miliardi di lire ai proprietari -la famiglia Messeni Nemagna- per rilevare il rudere -i cui danni non li sanno bene manco i pompieri che stanno ancora combattendo con il fuoco ed il fumo che continua a sprigionarsi dalle braci e dalla cenere incandescente a contatto con l’acqua.
Dissero, ovviamente, che lo facevano per ridare presto alla Città il suo tempio dell’arte ricostruito (in realtà tecnicamente, invece, fu un restauro) e subito comparvero per le prime spese di ricostruzione stanziamenti di ottanta miliardi a valere sulle entrate di giochi e lotterie. Il Ministro delle Finanze era all’epoca Rino Formica.
Non ci sono prove e, meno che mai, sentenze passate in giudicato. Sono stati condannati solo i due autori materiali dell’incendio: Mesto e Lepore. Ero e resto garantista, per cui non accuso di nulla, ma il sospetto di opacità espresso da Gianfranco Dioguardi, divenne presto sospetto della città. Affidare i lavori ad altri e non ai presenti a quell’incontro, troppo bene informati, troppo decisi ed, improvvisamente e repentinamente, convertiti al bene pubblico, fu considerata “cosa buona e giusta”. I proprietari condividevano la scelta, che alla fine spettava a loro e loro soli approvare o meno.
Avevo chiesto conforto ad Enrico Dalfino, su quella ipotesi. Mi rivolsi all’uomo che mi aveva messo in mano i libri di amministrativo e me ne aveva spiegato e fatto comprendere i principi essenziali con alcune amichevoli lezioni, donatemi in una estate assolata a bordo piscina, o sulle sdraio della sua villa in quel di Quasano. Tra l’altro con Enrico, stupendo segretario cittadino della Dc, ero stato suo responsabile da tecnico per lo spettacolo e la cultura. Che bel periodo. vedere un comitato cittadino, già sede d’affari e di spartizioni correntizie, trasformato in fucina di produzione legislativa, a tutti i livelli, fu esaltante. E fra quei progetti l’Area metropolitana della Città di Bari, di cui Enrico fu padre, madre ed ostetrico. Enrico si dichiarò entusiasta della soluzione illustratagli, cioè utilizzare direttamente i veri ottimi restauratori baresi e pugliesi, eliminando la mediazione parassitaria. Si dichiarò dispiaciuto per non poter fare molto di più per quel progetto. Non era più sindaco e la salute non lo sosteneva più di tanto. Gli risposi che non ero andato a chiedergli aiuto materiale, ma per confrontarmi con uno dei miei grandi maestri -nei maestri ho avuto una fortuna inaudita-. Ci salutammo e abbracciammo, vedendolo vacillare ebbi un brutto presentimento. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Così Gianni Dellino, che non mi aveva mai promesso nulla, cominciò a costruire con Alfonso Rossignoli e l’architetto Beniamino Cirillo un gruppo di progettazione di livello altissimo. Ne facevano parte l’arch. Beniamino Cirillo, ing. Fulvio Resta. Studio Vitone e associati (ing Amedeo Vitone), ing Alfonso Rossignoli, ing Giovanni Fuzio, ing Serino, arch. Mauro Civita (defunto), ing. Masini, arch. Giovanni Vincenti, ing Nicola De Venuto (defunto), ing. Michele Trovato, ing. Titta De Mommasi, e furono loro che si trascinarono dietro le imprese. Debar costruzioni spa ( De Bartolomeo), Ceti (Gianni Dellini), Vincenzo Modugno srl costruzioni e restauri, Resta srl, Garibaldi srl (Fragasso), Edil co srl, Coeni spa (Ninni), ed un’ altra impresa del gruppo Dioguardi di cui Alfonso, non ricordava il nome. Magari qualcuno dei citati lo ricorda e ce lo dice.
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