La fase 2 italiana stenta a partire
A due mesi dal primo DPCM ancora non si intravedono prospettive concrete di ripartenza. Dalle mascherine ai tamponi, sono ancora tante le domande in attesa di risposte, nonostante la fase 2 sia ufficialmente partita da circa una settimana
Vito Longo
Erano le 21.00 circa di un lunedì di marzo. Il premier Giuseppe Conte annunciava, qualche ora prima, una conferenza stampa sui generis, da tenersi sul suo profilo Facebook. Le notizie, che circolavano già da un po’, trovarono effettivo riscontro non appena il premier iniziò il suo intervento. In tutta Italia, per contenere l’impatto del Coronavirus, che andava diffondendosi a gran velocità, veniva dichiarato il lockdown fino al 3 aprile. I numeri terribili, poi, hanno costretto a prolungare la quarantena di milioni di italiani di un altro mese. Ed il 26 aprile, lo stesso premier Conte, annunciava che, dal 4 maggio, l’Italia sarebbe entrata nella c.d. “fase 2”, la fase della “ripartenza”.
Oggi, nella vigilia della seconda settimana di fase 2, a che punto è la ripartenza dell’Italia?
Spiace constatare come, nonostante le promesse, manchino diversi degli elementi dichiarati come fondamentali dallo stesso governo Conte. Andiamo, insieme, a vedere quali.
Assenza di mascherine
Il commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, qualche giorno fa, è stato duramente contestato, da quelli che lo stesso Arcuri ha definito “liberisti da divano col cocktail in mano”, per la sua scelta di fissare un prezzo di vendita massimo delle mascherine in 0.50€ più Iva. Poco prima si era parlato di 0.40€. Ad aver ragione, purtroppo per Arcuri, però, sono stati i critici di questa scelta. Aver fissato un prezzo massimo di vendita senza fissare, nello stesso tempo, un prezzo massimo d’acquisto, ha impedito ai rivenditori di rispettare le direttive. Troppo spesso, infatti, le farmacie acquistavano le mascherine ad un prezzo superiore a quello della successiva rivendita. Ancora oggi, non sono poche le farmacie e i supermercati che sono costretti a non poter vendere le mascherine o a non poterle rivendere al prezzo di 0.50€. Dopo le accese polemiche iniziali, gli ultimi interventi del commissario sono stati più concilianti. Entro pochi giorni la produzione interna di mascherine dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – salire a 12 milioni di pezzi al giorno. Un simile quantitativo sarebbe sufficiente a soddisfare l’alta domanda.
Decreto aprile
Il decreto aprile – ora rinominato “decreto Rilancio” – doveva essere approvato dal consiglio dei ministri il 30 aprile u.s. Siamo all’8 maggio e, sebbene ci siano ancora nodi da sciogliere, l’approvazione sembra ormai vicina. Il decreto stanzierà 55 miliardi che serviranno, grossomodo, a sostenere e far ripartire quattro macro settori: Famiglie, Sanità, Imprese e Scuola. Stando alle ultime indiscrezioni, dovrebbe essere approvato entro questa settimana. La speranza è che sia effettivamente così: troppe aziende e troppe famiglie necessitano di aiuti concreti.
Trovate un utile specchietto riassuntivo di seguito (fonte: La Stampa).
App Immuni
Sull’app si sta scatenando da qualche settimana vivace dibattito. Le ultime indiscrezioni sulla scarsa collegialità della ministra all’innovazione, Paola Pisano, hanno complicato ulteriormente una faccenda già di per sé ingarbugliata. Secondo le ricostruzioni apparse sulla stampa, la task force avrebbe indicato due alternative. La ministra, però, avrebbe scelto di sua sponte l’app Immuni sviluppata dalla compagnia Bending Spoons, sulla quale ancora aleggiano ipotesi di finanziamenti cinesi. Anche il Copasir ha voluto vederci chiaro. In ballo c’è la privacy di milioni di cittadini italiani preoccupati che la diffusione dei loro dati sanitari non avvenga secondo procedure certificate e garantite. Nel frattempo, nonostante gli annunci, l’app non è ancora disponibile, benché venisse ritenuta – e lo è tuttora – fondamentale per l’avvio della fase 2. L’intento condiviso è favorire ogni settimana nuove riaperture. Fino al 15 maggio, in realtà, la situazione rimarrà bloccata. Quel giorno, salvo ritardi, Apple e Google rilasceranno gli aggiornamenti necessari a farla funzionare. Seguirà poi un periodo di sperimentazione, che dovrebbe riguardare una grande città e un’area a bassa densità di popolazione. Questa fase dovrebbe durare un paio di settimane. È lecito pensare, perciò, che prima di fine maggio non vedremo questa app pronta per andare a regime in tutto il Paese. L’obiettivo iniziale del governo era che la scaricasse il 60% della popolazione. Questa, secondo, gli esperti, non è che la soglia minima per un tracciamento efficace. Solo attraverso un accurato sistema di tracciamento generale possono essere ricostruiti i contatti delle persone risultate positive e procedere a delle quarantene personali o per singoli nuclei familiari, ond’evitare un secondo lockdown generalizzato che avrebbe un impatto devastante sull’economia italiana, già molto fragile. Ma con le perplessità attuali, siamo sicuri di poterci arrivare a questa soglia?
Tamponi e test
L’app da sola, tuttavia, non basta. Una volta ricostruita la filiera dei contatti, per individuare le persone che possono aver contratto il virus sono indispensabili i tamponi. Era il 17 marzo quando parlavamo del “modello delle tre T” adottato da Corea del Sud e altre realtà asiatiche, interessate per prime dal fenomeno: testare, tracciare, trattare. Ed anche Walter Ricciardi, consulente del ministro alla salute Roberto Speranza, il 21 marzo dichiarava che l’Italia era pronta ad adottare il metodo Seul, raccomandato anche dall’OMS. A distanza di più di un mese e mezzo dell’app non c’è ancora traccia. Accanto all’app, però, perché essa sia efficace, serve avere vasta disponibilità di tamponi. Lascia francamente perplessi il ritardo accumulato dal governo nel disporre dei reagenti necessari. Il modello Veneto, su impulso del professor Crisanti, è stato possibile perché già dal 20 gennaio la regione guidata da Luca Zaia si è approvvigionata dei reagenti necessari per sostenere un numero alto di tamponi. Accanto ad essi, servono anche i test sierologici. Attraverso questo strumento si può arrivare a capire chi ha sviluppato gli anticorpi necessari e poter, quindi, tornare al lavoro in tranquillità. Senza questi tre strumenti – app, tamponi e test – saremo sempre a rischio di una nuova quarantena.
Infine, ma non meno importante, manca un piano sanitario. Cosa accadrà a chi dovesse essere trovato positivo al Covid-19? Verrà isolato? Dove? Abbiamo visto che, i positivi, mettono a rischio i loro familiari nelle proprie residenze. Per cui servirebbe un piano strutturato di trattamento differenziato, sistemandoli, per esempio, in alberghi o altre strutture simili, dove poter garantire una vera quarantena senza rischi per nessuno, ivi compresi i familiari dei soggetti. Accanto a questo servirebbe mantenere attivi, se non tutti, almeno alcuni covid-hospital. Di tutto questo, però, non sembra esserci traccia e si rischia di compromettere gli sforzi fatti fino a questo momento.
Il problema scuola
La ministra Azzolina ha dichiarato che la didattica a distanza sta funzionando in maniera eccellente. Se, però, si leggono meglio i dati, si scopre che tantissime famiglie, anche prima del lockdown, non avevano una buona connessione internet. Se, poi, ci aggiungiamo che in un’unica casa convivono uno o più genitori che necessitano di una postazione informatica per svolgere il loro lavoro da remoto, ben si comprende come non si possa affatto essere d’accordo con le dichiarazioni della ministra. Il pregio migliore della scuola è proprio quello di annullare le differenze tra ricchi e poveri, tra chi può permettersi un computer e chi no. Insistere con questa soluzione non può essere la scelta definitiva. Serve in fretta un piano comunicato con chiarezza alle tante famiglie che attendono indicazioni. Nove milioni di bambini sono costretti a non poter fare quello che compete loro. Le scuole sono state le prime a chiudere e saranno, verosimilmente, le ultime a riaprire. Che questo non rappresenti un problema urgente per le varie task force segnala una carenza grave del nostro sistema a livello culturale e sociale.
I trasporti pubblici
Altro grosso problema è quello legato ai trasporti pubblici. Anche ammesso che si riuscirà a far rispettare le misure di sicurezza, chi controllerà? Ad ora il problema è contenuto. Ma quando, causa allentamento definitivo delle misure di lockdown, la fetta di popolazione che usufruirà del trasporto pubblico crescerà, siamo sicuri che basterà affidarsi al buonsenso e all’autoregolamentazione di ciascuno, soprattutto in orari nevralgici?
Mancano i soldi
Imprese e famiglie sono ancora a corto di liquidità. Dei soldi promessi dal governo ancora non si ha traccia e le banche tardano ad erogare i prestiti garantiti dallo Stato. Allo stato attuale sono ancora troppi i destinatari delle misure di sostegno rimasti esclusi. L’auspicio è che il decreto Rilancio ponga rimedio a questa situazione.
Governo in difficoltà
Nelle ultime ore uno spiraglio di luce è arrivato dall’Europa. Il “vecchio” MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) è stato modificato. Le nuove condizioni prevedono che si possa spendere fino al 2% del PIL – circa 36 miliardi per l’Italia – in spesa sanitaria diretta e indiretta. A preoccupare erano i tassi di interesse. La legittima preoccupazione – in passato il ricorso al MES era molto gravoso per le casse di un Paese – è stata dissipata dall’approvazione di uno strumento che consente di restituire il prestito erogato ad un tasso prossimo allo 0 in dieci anni. Sarebbe un grave errore scegliere di non fare affidamento anche al MES. Nella maggioranza, tuttavia, c’è una forte fetta di contrari al ricorso al MES. Il Movimento 5 Stelle, infatti, vuoi per diffidenza, stavolta, va detto, ingiustificata nei confronti dell’Europa, vuoi per calcolo politico, non è ancora convinto, anzi, di accedere a questo prestito agevolato. La sfida è ancora tutta davanti per Giuseppe Conte, chiamato a trovare un difficile compromesso. Non sfugga, infatti, che pur non potendo trattenere la soddisfazione per questo passo avanti, il premier abbia demandato all’aula la scelta se ricorrere o no a questo strumento. La diatriba sul MES segue a stretto giro la difficile situazione sul decreto che prevede la regolarizzazione di centinaia di migliaia di braccianti agricoli costretti al lavoro in nero, poiché sprovvisti di regolare permesso di soggiorno. Il provvedimento è sentito tanto che la minstra Bellanova ha anche minacciato le dimissioni in caso di mancata approvazione. Se non desta meraviglia la contrarietà di Lega e Fratelli d’Italia, lascia un po’ perplessi la resistenza che sta opponendo il Movimento 5 Stelle. Il provvedimento è sacrosanto e benedetto da più parti. Normando questa situazione si potrebbe opporre un contrasto serio al fenomeno del caporalato, diffuso soprattutto al sud, e si potrebbe regolarizzare il soggiorno di migliaia di persone che lavorano in nero. Un’operazione utile, infatti, soprattutto per far emergere il lavoro nero e portare ossigeno nelle casse italiane, in difficoltà anche prima della crisi da Coronavirus. E poi è una legge di civiltà, giusta. Si tratta di esseri umani che già lavorano e sono integrati nei nostri tessuti sociali: è sacrosanto che venga loro riconosciuto il pieno diritto alla cittadinanza italiana.
Ad oggi, quindi, domenica 10 maggio, ci sono molte più ombre che luci nella (non) gestione della fase 2. I numeri che arrivano ogni giorno sono sempre più positivi, ma non può bastare.
Gli italiani hanno fatto eccellentemente il proprio dovere. Si sono adeguati scrupolosamente alla quarantena – la più lunga in Europa – che è stata loro imposta e anche in questa prima settimana sono stati molto meticolosi nel ripartire con la giusta prudenza. Navigli o no, c’è da essere orgogliosi del senso del dovere mostrato dagli italiani.
Il governo, da par suo, per essere all’altezza dei suoi governati, deve accelerare e mettere a punto una strategia per rendere la più sicura possibile la fase 2. Il Covid-19 ha già avuto un impatto drammatico sulla nostra economia; non c’è altro tempo da perdere.