Siamo sicuri che si vuole una Donna al Quirinale?
Una carrellata sulla “Presidente donna” fatta sa una Donna che sogna l’autentica, mai raggiunta, parità si genere.
Giovanna Sellaroli
Dopo le fumate nere delle sedute precedenti, ci si avvia al quarto giorno di votazioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, e intanto le trattative politiche si fanno sempre più schizofreniche.
Lasciando la cronaca ai preparatissimi colleghi quirinalisti che apprezzo per il lavoro incessante, sull’elezione del Presidente della Repubblica, sono giorni che penso male (per citare quel grande vecchio che di politica se ne intendeva: “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”).
Penso male soprattutto quando sento o leggo, a destra e a manca, che bisogna eleggere una donna Presidente della Repubblica, richiesta levata a gran voce, a inizio gennaio, anche da alcune personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, che hanno firmato un documento indirizzato alle forze politiche circa l’opportunità di votare un Presidente donna. Ma non è la prima volta che succede, a memoria storica, per Emma Bonino, nel 1999, si creò un comitato a sostegno della sua elezione. Infatti fu eletto Carlo Azeglio Ciampi.
Non solo penso male, ma una strana associazione di idee mi riporta alla mente l’inconsistente clamore intorno alla mai sopita questione delle “quote rosa”, al tedioso femminisimo burocratico di esponenti politici, o a quel femminismo di categoria troppo spesso radical chic e peggio ancora cattocomunista.
L’opzione di genere, oramai entrata nel tormentone del politicamente corretto, ripresenta puntuale a ogni elezione la questione del “Presidente donna”. In questi ultimi giorni il toto nomi impazza, e ben quattro sono le figure femminili di cui si è fatto il nome: Elisabetta Alberti Casellati, la Presidente del Senato, Marta Cartabia, guardasigilli, Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti, Paola Severino, ex Ministra della giustizia.
Nelle ultime ore, la figura su cui cercare una convergenza è, in primis, Maria Elisabetta Alberti Casellati, la prima donna Presidente del Senato della Repubblica, volto storico di Forza Italia, avvocata fedele a Berlusconi ed eletta al Senato con i voti del Movimento 5stelle.
Berlusconiana doc, quando il senato condannò Silvio Berlusconi alla decadenza da senatore, si vestì tutta di nero in Aula (come altre parlamentari azzurre) in segno di “lutto per la democrazia”, ma la ricordiamo anche per aver sostenuto che era plausibile che Berlusconi pensasse che Ruby Rubacuori fosse la nipote di Mubarak. E poi, più recentemente, per i voli di Stato, per l’aereo blu usato 124 volte in 11 mesi (di renziana memoria).
Marta Cartabia, profilo altissimo, Ministra della giustizia, giurista, accademica, ex Presidente della Corte Costituzionale, prima donna a ricoprire tale incarico, candidata al Quirinale nel primo toto nomi, si dice, vicina a Comunione e Liberazione, fu nominata da Giorgio Napolitano Presidente della Consulta.
Chiamata a sostituire l’ex dj Bonafede, da lei ci si aspetta la riforma del processo civile, riforma del processo penale e della urgentissima riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, in cerca di credibilità dopo i recenti scandali, le leggi ad personam e la torbida vicenda Palamara. Un bubbone per uno Stato civile e democratico.
“Tra i miei obiettivi c’è garantire tempi ragionevoli per i processi” ha recentemente sottolineato la Ministra; il progetto di riforma sulla giustizia è urgentissimo non solo per l’Italia, ma, potrà sembrare strano, anche per tante donne meno fortunate.
Alla Ministra vorrei raccontare la storia della “Signora G”, la chiamerò così, che per vedere riconosciuto il suo diritto al lavoro, ha dovuto aspettare ben cinque anni per la sentenza di primo grado, annullata poi in appello per un vizio di forma (sentenza peraltro unica nel suo genere). Sette anni di dibattimento per ricominciare da capo, uno sporco gioco dell’oca che non solo non rende giustizia, ma travolge una donna di 62 anni risucchiata nel vortice della zona nera della disoccupazione. Una terribile condanna quella della Signora G, che certamente non potrà ricollocarsi in un mondo del lavoro che vede il tasso di disoccupazione femminile in aumento.
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” recita il primo articolo della Costituzione, tanto invocata in questi giorni. È il lavoro che fa la differenza, le pari opportunità nel lavoro sono ancora lontane; lo stipendio medio delle donne è del 31% inferiore a quello degli uomini. Le stime di Eurostat indicano che in Italia la componente discriminatoria del Gender Pay Gap è pari al 12% e, in base al Gender Global Report pubblicato a marzo 2021, il nostro Paese occupa il 63° posto su 156 della classifica globale.
L’inutile dibattito, denso di ipocrisia sulla Presidente donna è irritante è operazione di facciata, è come nascondere la polvere sotto il tappeto. Le pari opportunità nascono in culla, anzi prima perché molto dipende da dove ti deposita la cicogna!
Ambiente, famiglia e status è evidente che fanno immediatamente la differenza, ma poi ci vuole una struttura di pensiero, una cultura capace di scardinare il sistema, abolire le ingiustizie, incidere nei settori chiave. E finora francamente l’agire delle donne, quelle di “potere” non è stato poi tanto diverso da quello degli uomini. E sono loro che devono darsi da fare, sono loro, donne che devono ingranare la marcia in più, quella marcia mai ingranata dai loro colleghi uomini.
Il dibattito su una donna al Quirinale è ipocrita e ambiguo, ed è intollerabile, soprattutto, in un momento così difficile, con il mondo ancora in ginocchio per la pandemia e l’economia mondiale ostaggio dello strapotere di regimi che ci tengono sotto scacco.
Il mio auspicio è quello che arrivi un giorno in cui le alte cariche dello Stato vengano riservate a donne e uomini con profili di spessore, capaci e meritevoli, senza dover programmare a tavolino una scelta di genere. Auspico che un giorno essere femmine o maschi non rappresenti alcun valore aggiunto e che non comporti alcun riscatto.
E ahimè, nello specifico, anche oggi, l’incessante richiamo alla scelta di genere, continua a farmi pensare male.
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