Enrico Berlinguer
Era l’epoca dei grandi leader Pertini, Moro. Berlinguer. Scomparsi loro si è perso lo stampo.
Nunzia Zampino
L’ 11 giugno 1984 Enrico Berlinguer muore, a sessantadue anni, mentre è nel pieno delle sue forze e della sua popolarità.
I suoi funerali, a piazza S. Giovanni, a Roma, sono un immenso corteo commosso, fatto di fedelissimi, di alleati, ma anche di avversari politici e di gente comune, che in lui hanno avuto modo di apprezzare il rigore morale e la passione per il suo lavoro.
Compromesso storico, eurocomunismo, austerità, questione morale; il lessico berlingueriano dà la misura di quanto profondamente l’azione e il pensiero del leader comunista siano stati intrecciati con la storia italiana di quegli anni e, soprattutto, con quella della sinistra.
Enrico Berlinguer è stato un uomo molto popolare; molti, e non solo tra i suoi, ne apprezzarono il carattere schivo e coraggioso e l’onestà intellettuale. Tanti, ancora oggi, rimpiangono il suo volto come quello di un’Italia che forse è finita con lui. L’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che lo pianse “come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”;
e che ne riportò la salma da Padova a Roma sull’aereo presidenziale, riteneva che: “Se il Partito comunista italiano è così profondamente radicato nella nostra realtà politica lo si deve anche e direi soprattutto alla sua opera”.
Nei giorni che seguirono la morte di Berlinguer molti, i suoi compagni, amici, sottolinearono le sue qualità umane, salutando in lui: “un uomo vero, un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente, solitario, di abitudini spontanee, più turbato che allettato dalla prospettiva del potere, e in perfetta buona fede”, Berlinguer, era un leader.
Ed ecco che due immagini vengono alla mente.
La prima risale al 1976; il segretario del PCI, a Mosca, sul palco del congresso del PCUS davanti a cinquemila delegati, prende la parola per parlare del valore della democrazia, del pluralismo, condannando l’interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri Paesi.
La seconda è l’immagine straziante di Berlinguer, affaticato, sul palco di Piazza della Frutta di Padova, durante il comizio di chiusura delle elezioni europee, il 7 giugno del 1984; gli manca il respiro, sussurra, le forze gli vengono meno, eppure continua a parlare. “Compagni, proseguite il vostro lavoro; casa per casa; strada per strada“; pronuncia le sue ultime parole con la voce fioca, spezzata, un fazzoletto bianco premuto sulla bocca. Alla fine perde conoscenza; non è la stanchezza, ma un ictus che, quattro giorni dopo, ne causerà la morte.
Tra queste due date si consumano le fasi più significative della parabola di un uomo che ha impresso un proprio peculiarissimo segno nel corso della storia del nostro paese.
Nel 1983 Giovanni Minoli lo intervista per Mixer; ne emerge un ritratto che rende merito ad entrambe questi aspetti della sua personalità. L’uomo timido, pieno di pudore, che si dispiace di essere definito un uomo triste, semplicemente “perché non era vero”, l’uomo che dà grande importanza alla famiglia, ai figli, per quanto non si pente di aver sacrificato alla politica molta parte del suo tempo, né spera di doversene pentire mai. Ma anche il leader sicuro delle proprie scelte, fedele agli ideali della sua gioventù, che ribadisce lo strappo con Mosca e considera il potere “uno strumento insufficiente ma necessario per realizzare i propri ideali”.
Alla domanda su cosa gli dispiace del potere, Berlinguer sembra non avere dubbi, non evoca le distorsioni del potere e il suo implicito rischio di generare corruzione, e risponde soltanto: “Mi dispiace che il nostro potere sia ancora insufficiente per la realizzazione dei nostri obiettivi”.
In memoria di Enrico Berlinguer. Oggi ricorrono 100 anni dalla sua nascita.
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